La fiorentina

Vorrei affondare i miei denti in un boccone di rossa carne. Che sia al sangue e contornata da quello strato croccante e leggermente amarognolo che contrasta il suo cuore soffice. Ma, ahimè, molti giorni dovranno passare prima che mi sia permesso! Chissà se la mucca dalla quale verrà la mia prossima Fiorentina e’ già nata? Mi sa che no! Mucca che devi nascere, vieni alla luce in montagna da una mamma forte che pascola i monti, corri spensierata sui prati verdi e mangia tanti fiori dai diversi colori. Bevi alla sorgente acque fredde e cristalline, riposa all’ombra di un albero, mai rinchiusa nei ripari dell’uomo. Vivi spensierata il tempo che ti e’ dato. Non farti sottomettere, ma combatti per la tua libertà, là in alto, dove quasi non esiste orma umana. Quando sarai bistecca, io sceglierò un ristorantino con i fiocchi, probabilmente in Toscana dove mi fermerò giri girando con l’amico che mi da gioia. Sarà un ristorante sulla collina con i tavoli in legno e le sedie impagliate sistemati sotto a un pergolato un poco in rovina coperto di clematis bianche e viola. Da li’ abbracceremo con gli occhi le dolci vallate e gli impervi crinali. Noi ti mangeremo, assaporando ogni sfumatura del tuo sapore, consci del grande regalo che morendo ci hai fatto. Nulla della tua libertà andrà persa perché’ diventerà la nostra vita passando tra delicati sapori e densi colori. Alzeremo i nostri calici di scuro Montepulciano in tuo onore e poi brinderemo alla vita. Allora, sazi di te, ci ritireremo nella stanza sopra al pergolato cadente e faremo l’amore per digerirti e regalarci l’un l’altra. Aspettami Fiorentina!

L’albero di Alfonso

Ci sono luoghi che hanno storie da raccontare; quella che segue me l’ha detta all’orecchio un grosso albero verde. Lui passa le sue giornate guardando il cielo che sposa l’acqua. Hanno gradazioni di blu diverse il cielo e l’acqua, cosi’, il vecchio albero riesce a riconoscerli anche quando si stringono forte, fusi nel loro amore. Ma ci sono giorni in cui il cielo e l’acqua si amano molto piu’ dolcemente e intensamente e dimenticano, presi come sono l’uno dall’altra, di accendere i propri toni di blu, cosi’, si presentano grigi al vecchio albero. Sono talmente fusi uno nell’altro che al testimone del loro amore non e’ piu’ dato capire la fine di Acqua dall’inizio di Cielo. Ora la leggenda racconta che il vecchio albero, quando i due amanti sono cosi’ profondamente presi, rubi un pochetto del loro amore e lo nasconda tra le sue foglie. Si sa che l’albero ha rubato l’amore della natura perché le sue foglie si appesantiscono e gli regalano una forma piu’ tonda e chiusa, quasi un abbraccio. Ora, sempre la leggenda narra che di notte l’albero liberi l’amore trattenuto nelle sue foglie donandolo a chi appoggiato al suo tronco contempli ciò che lui guarda ogni giorno. Dicono che siano sensazioni fortissime tanto da piegarti in due a tale punto che spesso le unghie si incastrano nella corteccia. Il vecchio fusto allora si mette a ridere per il solletico fatto dalle unghie incastrate. Chi prova quel tipo di amore protetto dalla chioma a forma di abbraccio poi si sente felice fin giu’ nel profondo delle sue viscere e non scorda piu’ ciò che li’ e’ accaduto a causa di un vecchio albero ladro di amore.

La ruspa

C’e’ atmosfera strana agli incroci di Milano, sarà forse il caldo. Ricordate l’uomo inchinato al sorriso di lei? Bene, oggi nuovo incrocio, stesso sorriso, nuovo inchino. Questa volta, però, non umano, ma di macchina. Ad inchinarsi e’ stata infatti una ruspa gigante che chissà cosa ci faceva in quel posto. La donna stava semplicemente aspettando il suo turno ad attraversare quando, per caso, guardò il grosso mezzo di cantiere arrivare e contemporaneamente pensò che era alquanto bello. Quella macchina infernale si portava addosso il lavoro degli esseri umani reso palese dai quintali di polvere appiccicata. Lei la conosceva bene quella polvere ed aveva imparato a rispettarla. Credo che il pensiero di lei in qualche modo si rese palese all’uomo che, in canottiera bianca, guidava il mostro fuori luogo. Più lei pensava, più lui rallentava fintanto che non si parò completamente fermo davanti a lei e la pala scese. L’aggeggio infernale si appropriò dell’incrocio con la sua massa immane scatenando l’invidia di ogni altro mezzo per l’audacia mostrata, infatti a quel punto, l’incrocio suonò sulle note dei claxon impazziti e fu il disastro. Il bolide polveroso, completato il suo inchino, ripartì liberando il verde al passaggio degli altri mezzi montati a furia come la panna si monta a neve. Al suo turno lei attraversò ridendo a gran voce. Era la prima volta che la forza del suo pensiero riusciva a fermare ed inchinare una ruspa facendo impazzire un incrocio. Potrebbe essere finita qui, ma poiché gli attraversamenti ancora non erano completati, mancava infatti l’altro lato, come potrebbe finire ora la storia? La donna aspettando di nuovo il suo turno ad attraversare notò sull’altra sponda un piccolo essere umano, era tanto grande quanto piccolo. Una vecchina incurvata e rugosa stava a sua volta avvicinandosi all’incrocio. Era così vecchia, così incurvata, così delicata che uno zuffolo se la sarebbe potuta portare via. Il suo passo era lento, che più lento non si può; faceva venire voglia di camminare al suo posto. Faceva anche venire voglia di correre a ben pensare. La sua, però, non era una lentezza di malattia; era una lentezza di storia. Quella donna si portava addosso tutta la sua vita incastrata tra le rughe e piegata dalla gobba. Era bellissima e nobile. Al verde le due donne si misero a camminare, ma alla vecchina ci volle un tempo infinito per attraversare e un passaggio di verde non fu sufficiente. La donna giovane, creatrice di inchini, capì e si fermò a metà incrocio solo per guardare la vecchina andare. Penso pensasse a che vita piena doveva aver avuto per camminare così lentamente, penso pensasse che solo chi sa appagare se stesso dei frutti del mondo avrebbe, in vecchiaia, camminato in tal modo. Intanto la vecchina avanzava con quel passo corto, lieve ed incurvato che a tratti sembrava un trotto fermo e la giovane, produci inchini, sempre ferma a metà sulle strisce … Verde, poi rosso! Ed accadde di nuovo! Il traffico si ingelosì di quelle due donne beate ed impazzì. Credo non riuscisse a reggere l’idea della lentezza che esprime pienezza di vita. In strada questa mattina probabilmente c’era un traffico scarno e rinsecchito. Ancora l’incrocio risuonò del concerto di claxon. Ma sapete il bello? La vecchina non li sentì perché era anche un poco sorda e nemmeno la giovane donna ci fece caso così intenta a rimirare l’età di vecchiaia. La vecchina arrivò di la e la giovane di qua e l’incrocio tornò al suo ritmo normale contando due concerti in più di claxon. Ho scoperto che è un incrocio Allegro vivace.

L’inchino

Avete presente le calde giornate di prima estate? Quelle in cui i tacchi sprofondano nel cemento ed è impossibile camminare al sole perché brucia la pelle già abbronzata? Lei ci stava camminando dentro per andare a fare colazione con l’amica di sempre. Portava una canotta senza intimo ed una gonna sotto al ginocchio, messe un poco a caso e non proprio coordinate, non aveva trucco se non il colore del fine settimana al sole, solo i piedi erano particolarmente curati dentro ai sandali alti. Era in cuffia; ascoltava la musica, sentita un milione di volte, solo perché fa star bene. Stava vagando nei suoi pensieri, erano bei pensieri, di quelli che sfamano. A guardarla appariva beata. Le canzonette facevano da colonna sonora ai ricordi di quel fine settimana non programmato che le aveva regalato un turbinio di sensazioni sepolte o forse nemmeno mai provate. Era stato uno di quei week end che ti risvegliano un poco più donna e lei se lo era goduto tutto. Lo aveva bevuto, ma ancora non digerito perché voleva tenerselo dentro per poterlo rivivere qualche altra volta.
In quel particolare momento era tornata nel pieno della notte, quando era uscita sul terrazzo a godersi l’aria notturna, ma poi era stata distratta da una sensazione improvvisa di caldo ai piedi che l’aveva stravolta. Su tale sensazione lei rise appagata, vedendo il mondo davanti a sé, senza però guardarlo. E fu lì che lo notò. Era un uomo sulla cinquantina in giacca blu, di quelle estive che permettono al corpo di respirare, aveva pochi capelli ed era abbronzato. Lei notò che si era sorpreso al suo riso, ed ora la guardava con gli occhi a mezzo ammirati ed a mezzo stupiti. Forse aveva pensato che quel sorriso fosse per lui, ma non lo era; era per un altro corpo. Lei però rispose a quel gesto gentile, restituendogli un sorriso fatto di occhi e di bocca, movimenti impercettibili, che lui acchiappò. A quella replica lui reagì; si spostò, si mise sul fianco per darle strada e poco prima che lei passasse si inchinò con la mano sul cuore. Lei gli passò davanti senza smettere di guardarlo negli occhi e senza togliersi di dosso l’inclinazione delle labbra e non appena gli fu di fianco rese ancora più profondo il sorriso di occhi e di bocca. Poi passò oltre senza cambiare il ritmo dei suoi passi, riempita da quel gesto inaspettato. Caspita! non le era mai capitato di passare al fianco di un uomo inchinato al suo sorriso; il sole al confronto impallidì! Lei tornò al pensiero di ciò che l’aveva resa così bella da far piegare un uomo incontrato per caso all’incrocio. Quel pensiero le mise sete.

Il ponte

Quante volte aveva attraversato quel ponte? Erano anni ormai; questa sarebbe stata un’ennesima di molte. Presto la mattina viveva quei momenti così particolari accompagnata dal profumo della natura e dalle nebbie del giorno che nasce. Amava mantenere i ricordi di ciò che sarebbe stato legati all’esperienza dei sensi di ciò che precedeva. Perciò, quell’alba gelida, lei si chiuse nel suo pastrano, nascose il capo sotto al cappello e si incamminò verso il giorno. Sentì strisciare i tessuti sulle foglie appassite, così per un poco lasciò il suo orecchio ascoltare quel dialogo tra trame, che montava come un crescendo e poi tornava quieto, quasi nullo. Poi fu distratta dai movimenti dei suoi piedi che schiacciando nudi le vecchie assi del ponte rendevano l’abitudine del camminare un’invenzione condotta e si perse nel modificare il suo peso per far in modo che il legno sotto di lei le restituisse tutti gli scricchiolii che conosceva. Adorava sentire l’anima di quel corpo estraneo passarle attraverso i piedi e fondersi nella sua carne. L’umidità di quella mattina invernale le appiccicava la cappa addosso imprigionandola nei suoi medesimi movimenti, così per un poco si immerse nei confini fermati da quell’abbraccio bagnato che le premeva addosso marcando la differenza tra un fisico e l’altro. Giocò ad accaparrarsi un pezzetto di aria per obbligare, come in un intimo scontro, l’altra massa a farle spazio dentro di lei. Nel lottare si accorse col naso del sapore di quell’ora rara e si fermò ad annusare profondo e lungo per fermare in un brivido fisico l’odore di vita. Perse i suoi occhi nella nebbia densa che attutiva ogni pensiero nel limbo del nulla per regalarle la libertà di sentire ogni cosa. Lei lasciò andare gli occhi smarriti e chiusi, si accarezzò i piedi, tirò su col naso e poi, cieca di idee e sazia di sensi attraversò il ponte. La c’era l’altra sponda, lei era pronta.

il foglietto

Ci sono foglietti e foglietti. Di alcuni non vedi l’ora di sbarazzartene, altri servono per breve tempo, pochi hanno invece importanza vitale. Questa e’ la storia di un foglietto vitale. Aveva il valore di un passaggio in traghetto per due. Auto ed essere umano. Il valore stava più nella meta che nel passaggio. Dall’altra sponda del lago c’era infatti l’appuntamento che ti può cambiare una vita. E la’ bisognava arrivare! Per questo era vitale il foglietto; per attraversare. Era stato riposto in bellavista sul cruscotto assolato in attesa dell’imbarco, ma faceva caldo troppo caldo nell’auto così tutti i finestrini furono aperti per arieggiare. Fu allora che il foglietto decollò. Prese il volo prima ispezionando l’intero abitacolo, poi sperimentando lo spazio aperto… via libero nel forte vento. Mentre il foglietto fluttuava leggero, l’umano si lanciò a braccia all’aria nel tentativo di riacchiappare il fuggitivo. Pareva danzasse sui piedi mentre le braccia compivano allungamenti stirati. La piccola folla al contorno si immobilizzò paralizzata dall’ inversa danza di foglietto ed umano. Quello era il più raro paso doble mai visto. Ma i movimenti non sortirono l’affetto di riunire umano e cartaceo, così si alzò nel vento un voce a lusingare il muto oggetto. No! No! no! fermati per favore fermati; non costringermi ad un bagno nel lago. Appena la voce si unì alla danza la folla trattenne il respiro come ad aiutare nella cattura del sottile evaso. Poi ci fu una grande risata e forti battiti di mani. Il foglietto pensò di essersi trasformato farfalla e su un ramo si posò così la mano l’acchiappò!

Incontro all’angolo di Porta Venezia

Questa è una storia che accade ogni mattina, allora più che storia andrebbe chiamata cadenza. È la cadenza tra due donne che, da anni, si sfiorano. L’una appartiene al mondo gitano, porta sul volto i tratti della vita all’aperto, è difficile darle l’età, ma gli anni sono sicuramente molti. Siede all’angolo delle due vie, tra le più eleganti di Milano, accovacciata nei suoi gonnoni su un piccolo sgabello che scompare sotto al suo corpo grosso. La testa è ogni giorno coperta da un fazzoletto triangolare, chiaro nei colori, e non sempre pulito; il corpo è fasciato da quelle lunghe gonne accese, in velluto, che non cambiano mai, nemmeno nell’arsura di piena estate. L’altra è alla vista più giovane, veste alla moda italiana, porta jeans e stivaletti, ma anche gonne dalle varie lunghezze e scarpe coi tacchi. I suoi vestiti cambiano ogni giorno così pure il suo aspetto ed il suo capo è raramente coperto. Ciò che invece non cambia mai è la borsetta ed il giaccone invernali, per i quali ha sicuramente una particolare predilezione. La gitana non parla italiano, l’italiana non parla gitano. Si incontrano sempre di prima mattina, quando le strade sono ancora deserte. Anni fa era solamente un passare davanti ad una straniera accovacciata, ma la cadenza con cui ciò accadeva ha costretto le due donne a notarsi e riconoscersi. Così per lungo tempo fu semplicemente abbozzata una specie di smorfia che pareva un sorriso da parte di entrambe. Era un poco un vorrei, ma non posso. Poi la cadenza divenne così costante che non fu più possibile ignorarsi educatamente. Probabilmente le loro culture, tanto lontane anche se vissute nello stesso luogo, hanno entrambe il seme dell’educazione che passa attraverso il riconoscimento di un essere umano che ti vive accanto. La smorfia divenne un aperto sorriso. Era un sorriso buongiorno perché avveniva così presto la mattina; credo che, per entrambe, sapesse di caffè. Il sorriso durò più di un anno. Un sorriso al giorno, poi più nulla. Ma quando i sorrisi diventano abitudini hanno il potere di scardinare distanze e quei due sorrisi l’hanno scardinata la distanza tra etnie. L’italiana, cresciuta in un mondo di parole, un giorno ha accompagnato il sorriso con un “buongiorno”, ricevendo in cambio il solito sorriso gitano. Pronunciato il saluto una volta, è per cultura impossibile tornare indietro, così il sapore di caffè fu sentito non solo in un gesto, ma anche in una parola. La cultura gitana, probabilmente, è molto più diffidente perché a lungo non vi fu risposta al buongiorno; poi, quel profumo intenso di mattina forse divenne irresistibile e al buongiorno italiano iniziò a seguire uno strano movimento del capo gitano, una muta risposta; così per parte italiana il buongiorno divenne un “buongiorno signora”. Ma la gitana un giorno sparì ed a lungo l’angolo perse i variopinti colori. L’italiana notò l’assenza e spesso sperò, girando l’angolo che fa entrare alla piazza, di riuscire a sentire di nuovo quello strano profumo al caffè parlato e ammiccato.
In una giornata di cielo blu, la donna gitana fu di nuovo al suo angolo e non appena l’italiana girò le strade, si aprì in un grande sorriso, e poi … parlò. Disse parole nella sua lingua natale, sorde all’orecchio italiano anche se profondamente gradite. La bocca gitana non smise il soliloquio e, da allora, pronuncia ogni giorno parole dai suoni diversi e incomprensibili. Spesso li accompagna con movimenti delle mani che si uniscono e dividono a sottolineare quelle parole sconosciute. La donna Italiana rallenta in modo che la gitana abbia agio a parlare e finire, ma ancora non ferma il suo passo. C’è il tempo per un sorriso, un buongiorno e parole che formano frasi ignote, tanto l’italiana trascina l’istante di un passo. La cadenza mattutina dell’andare rallentato a contenere sorrisi, gesti e parole rare è diventata l’abitudine tra le due sconosciute così lontane per vita. Questa è la storia che accade ogni giorno all’angolo delle due vie tra le più eleganti della città.

Bionde Orza

Questa di bionde capello è la storia, quando, per appuntamento, entrarono là dove le Cariatidi guardano. Buio era l’antro di palle ornato. Rotondi e muti i mondi risplendevano nel firmamento attento. Le due donne dalle chiome ricciute venivano dalla galassia di Orza Minore per tradurre in parole quei mondi silenti. Difficile era per loro capire quel linguaggio lontano ed il cellulare lettore di barre dovettero usare per decifrare simboli e segni. Il passar di energia dai codici ai telefoni caricò le chiome ricciute di forza Orzea. Fasci di luce bionda, per scarica accidentale, alimentarono tutti i mondi silenti che, con gran stupore di donne e rumore di ingranaggi, si aprirono in sculture dorate. Dalla lacuale Orza Minore, attraverso galassie lontane, le due donne viaggiarono fino a quel antro cariatideo per far sbocciar bocce d’acciaio. Eseguito l’arcano e spenti i ricciuti capelli al freddo milano tornarono sazie.

Attraverso un uscio

Erano già le nove e dieci ed era tardi, la conferenza iniziava alle nove. Lui aveva voluto fermarsi qualche minuto in più in quel bar buio e stretto senza motivo, forse per stare ancora un poco solo con quella donna che tempo prima lo aveva ammaliato e che ora gli chiacchierava al fianco tranquillamente, dimentica dei tempi addietro. Lei invece voleva andare. Il tema tecnico della serata affascinava la parte del suo cervello che adorava perdersi nei concetti difficili e quella era un’occasione ghiotta. Era la sua serata intellettuale. Finalmente lasciarono il bar. Lei aveva bevuto uno Spritz, alzandosi lo sentì tutto e pregò che non gli ottenebrasse troppo la mente perché da lì alle prossime due ore doveva averla tutta a disposizione e già si portava addosso la stanchezza di una giornata di lavoro. Chiacchierando amabilmente arrivarono alla sede e suonarono alla porta perché era chiusa. Aprì uno tra gli uomini che avevano organizzato l’evento, lui e la donna si conoscevano, c’era sicuramente rispetto reciproco, forse l’inizio di un’amicizia. Lui vero professionista, lei pura amante, le due facce dello stesso soldo. Appena l’uscio si aprì lei sorrise d’istinto, e d’istinto guardò il viso di chi apriva. L’espressione di lui cambiò in un nano secondo, quello che lei vide dipinto sul viso del quasi amico fu puro stupore, le disse qualcosa del tipo: “tu qui?” e lei si intimidì chiedendo a sua volta: “ Posso?”. Il viso di lui si aprì in un sorriso rilassato e facendola entrare le disse all’orecchio: “Certo … e poi sei socia …” Lei si sentì accolta ed entrò, con l’amico dietro. Voi mi chiederete: ma perché ci racconti la storia di un ingresso ad una conferenza?” Perché non è solo il racconto di un ingresso in una sala, ci fu un’altra esperienza dietro a quel oltrepassare una soglia. Un’esperienza che nutrì il cuore di lei, mentre chiunque altro era ignaro. Quanto tempo era che non le accadeva di essere la causa di un’emozione forte abbastanza da poterla leggere chiaramente sul viso di un uomo? Troppo!… aveva dimenticato. Nemmeno sul viso dei suoi amanti leggeva più alcuna emozione nei suoi confronti; erano tutti amanti meccanici.
Ma quell’uomo, in fondo estraneo, si era stupito del suo semplicemente essere lì, aveva reagito a lei e questo l’aveva fatta sentire viva. Per un momento millimetro avevano danzato la cresta delle emozioni. Quella di lui, era stata una pura reazione, sganciata da tutto e senza nessun altro significato, ma bellissima perché donava vita. Lei si sentì causa e le piacque. Entrando lei si chiese: “Quanto tempo è che non reagisci così ad un altro essere umano?” “Troppo tempo, un tempo infinito” si rispose. Così quel passaggio attraverso un uscio la caricò di vita e le ricordò che parte della sua umanità stava nel lasciarsi stupire dalle persone. Ma la conferenza era ormai iniziata e ora doveva prestare attenzione alla direzione di tutte quelle forze che giocavano tra loro piegando, incurvando, tirando e, a volte, spezzando.

La solitudine

Aveva attraversato chilometri di terra innevata e battuta dal vento scarico di sole. Il paesaggio invernale era reso particolare dalla neve ghiacciata sugli alberi dorminenti che, come una nuova pelle bianca, chiedeva carezze al suo occhio. Non era facile accontentare tale paesaggio presa com’era dalla guida bagnata del suo quattroruote, ma riusci’ comunque a saziarlo con alcune occhiate fugaci. Svolte le faccende programmate, si trovo’, sola, ad usare il grosso traghetto di ferro che solca il lago da una riva all’altra. Lei e la sua macchina. Il vento batteva forte da nord caricato oltre misura dalla velocita’ del battello. A stento la donna riusciva a mantenersi in piedi se non protetta dal ferro ghiacciato. Si guardo’ intorno vedendo la sua solitudine, allora si avvicino’ un poco di piu’ alla macchina, cosí per avere un po’ di calore da un essere familiare; poi guardo’ oltre il ferro del battello, oltre i salvagenti di sicurezza e sbalordi’. Vide quel mondo fatto di montagne e di acqua, vuoto di umanita’, ma pieno di bellezza, anch’esso solo nella sua imponenza, contenere la sua medesima piccola solitudine e si sentí grandiosa. Mai le era capitato di essere parte della solitudine altrui. Mai aveva notato il lato splendido di tale sentimento. Le ci volle il lago per viverlo. Ma ecco che il battello approdava. Lei sali’ in macchina, accese il motore e si lascio’ l’immensita’ alle spalle; ora aveva bisogno di un caffe’ bollente.