Coronavirus e Politica

L’effetto pandemico più grave di Covid-19 è stata la sua capacità di chiusura ancor prima del sua grado di infettività. Il virus è riuscito a sospendere in ogni sua declinazione la vita degli individui: lavoro, affetti, abitudini, vizi.

La nostra società si è ritirata in casa, come fanno le marmotte al fischio della sentinella quando si interrano nelle loro tane.

Se intendiamo la vita non tanto quale corpo che respira, ma piuttosto quale corpo che respirando agisce in relazione all’esterno da sè, Covid-19 ci ha uccisi tutti.

Un omicidio parziale poiché ci ha lasciati vivi come individui, ma uccisi come esseri sociali dato che non esiste umanità senza la sua capacità di uscire da sé per incontrare l’altro da sé sotto forma di attività economica, relazione sentimentale, passione personale, gioco, studio ….

In questa ecatombe, c’è un unico soggetto della nostra socialità cui ha giovato il Coronavirus: l’uomo politico. Egli è tornato centrale nella vita del proprio paese, riprendendosi il suo posto a cena nelle case degli italiani.

La politica che da almeno vent’anni aveva perso il ruolo di protagonista nella vita del paese ridotta, dal mercato globale con le sue regole economiche e finanziarie internazionali, a macchietta incapace di influire nella vita reale dei suoi cittadini, torna ad essere investita della responsabilità più alta: provvedere alla sopravvivenza del suo popolo; tornare artefice della sua incolumità.

Un fare oggettivo che da decenni aveva perso.

Un’occasione unica di vedersi di nuovo riflessa nella società.

Cosa le era successo negli anni precedenti?

Fino alla caduta del muro di Berlino, la politica è stata padrona del mondo. Gli ideali, cioè l’idea che ognuno aveva del mondo fuori di sé, agivano a tutti i livelli della società come motori della vita stessa ed in politica, tradotti in ideologie, erano un indirizzo valoriale non solo in grado di indicare un fine cui tendere, ma anche capace di agire territorialmente per arrivare a tal fine creando stati, sovranità, potenze; un poco come le orme che indicano il cammino appena fatto, la direzione intrapresa, ma sono anche certezza di aver messo il piede proprio in quel determinato luogo.

Poi il mondo ha perso i suoi confini, tutto è diventato parte di tutto, l’ideologia ha lasciato spazio alla tecnologia, lo stato si è trasformato in un burocrate recupera gettito, mentre i suoi cittadini sono diventati oggetto e soggetto, mezzo e fine di un sistema tecnico mediatore tra umanità e mondo sensibile, ove ogni atto passa attraverso un dispositivo presente, a sua volta collegato ad altri dispositivi non presenti, e finalmente, forse, atterra sul suo oggetto.

Tutti noi, nel giro del tempo della caduta di un muro abbiamo, senza accorgerci, cambiato era geologica lasciando l’Olocene per entrare nel Antropocene, era nella quale “all’Uomo e alla sua attività sono attribuite le cause principali delle modifiche territoriali, strutturali e climatiche del pianeta.”

Whaoo che botta!

La povera politica nel giro dei venti prodotti da tanto immediato, convulso, imprevisto, movimento ha iniziato a girare su se stessa, una serie di sette_e_venti eseguiti senza nemmeno sapere per quale penalità … chiunque sarebbe rimasto scombussolato e disorientato … la politica da quei giri non si è mai più ripresa … ma ecco che arriva il Coronovirus … di colpo lei torna protagonista, di nuovo ha la facoltà di incidere nell’immediato sulla vita dei cittadini.

Il virus la partorisce di nuovo e lei si trova rinata, da grande protagonista, in un mondo sconosciuto che non è quello che ha lasciato prima di iniziare a trottolare nella nuova era geologica.

 

Ecco la sua grande opportunità: ripensare allo stato attuale delle cose e trasformare se stessa per adeguarsi al nuovo mondo ove la tecnocrazia regna sovrana; costruire sul Coronavirus una nuova visione di sé ed un nuovo sogno per la società tornando così a dare un fine a quell’immenso mezzo, imperatore e suddito assieme.

 

Quello che fa, tutta presa da questo suo nuovo protagonismo, è invece ripiegarsi sul Coronavirus che diviene il suo unico oggetto di preoccupazione. Lei cerca di combatterlo con le armi di cui si ricorda e di cui ha centenaria esperienza: da una parte, con la decisione politica del controllo territoriale e della limitazione delle libertà personali, declinati quali “distanziamento sociale” che assume valenza di principio medico dato che il “nemico” è un virus e non un opposto fronte ideologico.

( La medicina, in realtà, per l’emergenza le aveva chiesto un distanziamento fisico che lei però, in epoca di tecnocrazia e D.p.i., traduce comunque in distanziamento sociale.)

Dall’altra cerca un accordo internazionale per il sostegno economico della prima decisione politica che il suo stato territoriale non è più in grado di reggere, sempre dimentica che è ormai avvenuto il passaggio della potenza da sovrana a tecnica, che il mondo si è unito e che l’Unione Europea, organo sì sovranazionale, è pur sempre figlia del matrimonio tra ideologia e libero mercato, sacro vincolo ora mutato in coppia di fatto attraverso la sostituzione dell’ideologia con la tecnologia, ma che lascia comunque tale istituzione figlia del tempo anteriore al passaggio di poteri da Stato a Scienza.

Ma com’ è questo mondo tecnocratico globalizzato nel quale si è sparso il Coronavirus?

E’ un mondo caratterizzato da due elementi fondanti:

il primo: la totale libertà individuale, che è necessaria alla società di mercato, come la legna è carburante al fuoco, per essere in grado di produrre sempre un maggior numero di beni e sopravvivere, ma che, dal punto di vista individuale, è valore assoluto.

Il secondo: il sistema normalizzante attraverso il quale la tecnocrazia si esprime, come l’aria è comburente al fuoco, che ha la sua più esplicita forma nella burocrazia e che produce però sull’individuo l’effetto opposto della libertà.

In questo scenario dilaga il Coronavirus, che viene vissuto come agente dirompente per la sua forza assassina, ma di tale violenza la politica coglie solo l’aspetto fisico non quello relazionale.

Il Coronavirus dalla politica è letto nella sua forma più elementare quella che dovrebbe rimanere di pertinenza medica, ma la sua forma subdola, quella che invade quella porzione del sé umano che, come una spazio vuoto, avvolge l’individuo e diviene il luogo ove ognuno si rappresenta il proprio futuro, il luogo delle relazioni umane per semplificare, viene totalmente ignorato.

Essa, ripiegata sul proprio nuovo protagonismo gestionale, al momento non vede la possibilità associata alla distruttività del coronavirus in questa sfera non fisica dell’umanità.

Se la politica avesse riconosciuto il cambio epocale accaduto con quel gran polverone, ora saprebbe del nuovo scenario fatto di relazioni ben più grandi di lei, ispirate alla libertà individuale più totale, ma imbrigliate nella schiavitù più estrema della norma cogente; riconoscerebbe di questo mondo unito, libero, mercificato, e mai così veloce la forza ed il pericolo riuscendo così a formalizzare nello sconquasso causato dal coronavirus uno scenario migliorativo della sfera in cui l’uomo è potenza, ripensando se stessa ed il senso della società nel flusso continuo del cambiamento dovuto alla globalizzazione tecnico economica.

Insomma, tornerebbe a vestire la P maiuscola!

Al momento, invece, non sa esprimere nulla al di fuori dell’imposizione sociale e dell’immobilità decisionale sazia com’è di avere una piccola parte nel siparietto europeo ove va in onda il Mes.

Emergenza sanitaria ed etica politica

Vi racconto tre giorni di vita della repubblica Italiana che passeranno sicuramente dimenticati da tutti nel lungo flusso della storia, ma a me personalmente fanno pensare, molto pensare.

24 aprile 2020 mia sorella Scilla compie cinquant’anni. Né famiglia, né amici la possono fisicamente festeggiare. Così come nessuno ha potuto festeggiare gli 80 anni di mia madre, i miei 52 anni, e i 18 di mia nipote AnnaSofia.

25 Aprile 2020 Festa della Liberazione, cioè della Libertà, il presidente della Repubblica Mattarella sale e scende totalmente solo, con la mascherina sulla faccia, l’Altare della Pace. È una solitudine da deserto, non c’è altra presenza umana. Guardandolo mi chiedo, ma perché ha su la mascherina? È solo, non c’è bisogno di mascherina, non esiste un problema di distanziamento sociale ed è una cerimonia di stato ufficiale.

Quindi la mascherina è simbolo. Cosa vuole dire lo stato agli Italiani?

26 Aprile 2020 Conte, di nuovo per Dpcm, cioè senza discussione e approvazione parlamentare, in nome della lotta alla pandemia da Covid 19 nella annunciata fase due conferma pressoché tutte le limitazioni alla libertà personale, senza ancora indicare alcuna data al ripristino del diritto civile alla libertà di movimento ed azione e calendarizza la ripresa del diritto al lavoro, anch’esso sancito dalla costituzione, secondo un ordine dato dalle task forces di esperti che lo consigliano in questa emergenza.

Dato lo stabilizzarsi della curva dei contagi sotto al famoso coefficiente di sicurezza tutti si aspettavano l’inizio di una fase 2 di con-vivenza con il virus, ma questo non è quello che raccontano le parole di Conte.

Allora torno a chiedermi: “Cosa vuole dire lo stato agli Italiani?”

 

Questi sono stati i tre giorni della nostra storia tra pubblico e privato.

 

Ed ora questi i miei pensieri:

Emergenza significa dover far fronte ad una situazione non prevista nei confronti della quale i mezzi a disposizione sono inadeguati o non ci sono. Nel momento in cui ci si dà un’organizzazione di pensiero e di mezzi l’emergenza cessa di esistere e si passa alla gestione di una situazione, unica, che fa paura, anomala, pericolosa, preoccupante, quello che si vuole…

Il ruolo di chi detiene la capacità di decisione io ritengo debba essere questo: trasformare un’emergenza in uno stato governato.

Quando l’oggetto dell’emergenza è una malattia mortale e senza cura non è facile, perché oltre all’aspetto della malattia esiste la paura. La paura è più potente della malattia e non è una forza oggettiva come invece è un virus.

 

L’umanità, però, ha esperienza quotidiana con malattie sconosciute, terrificanti e, in percentuale medio alta, senza scampo. Allora tento una similitudine.

 

Il cancro al seno colpisce una donna su otto, non è infettivo, ma infetta una percentuale altissima della popolazione perché là dove ci sono otto donne assieme, per esempio dal parrucchiere, una di esse o è malata o sicuramente nel corso della sua vita si ammalerà.

Qui non c’è virus esterno, ma una cellula del nostro corpo che si incattivisce, inizia a moltiplicarsi senza sosta e colonizza gli organi interni fino a impedire il loro funzionamento e la persona muore.

Essendo un problema cellulare non è epidemico, non ha cioè vita limitata nel tempo che per un virus significa qualche mese, ma fintanto che il cancro non sarà debellato da un vaccino continuerà a fare vittime.

La differenza sta nell’evidenza dello stato emergenziale, covid 19 è sotto gli occhi di tutti, ognuno si sente vulnerabile, non c’è cura e la malattia sta causando grande difficoltà ai medici non tanto per come è fatto il virus, ma solo per la totale inadeguatezza di risposta delle strutture ospedaliere che spesso significa aumento della mortalità.

Il cancro al seno, non è sotto agli occhi di tutti perché finché non ti viene è cosa lontana da te, pertanto è chiuso nei reparti oncologici, nessuno si sente vulnerabile, anche’esso non ha cura ed è causa di grande difficoltà per i medici che si traduce in lunghissime liste di attesa per le terapie e trattamento spesso disumanizzato da parte dei medici subissati dall’alto numero quotidiano di pazienti da trattare per l’inadeguatezza di risposta delle strutture ospedaliere che spesso significa, anche qui, aumento della mortalità.

Se allarghiamo il significato di contagio a quello di propagazione credo che il parallelismo si possa fare; entrambi infatti hanno in comune: causa ignota, percentuali di guarigione simili e forse più alti per covid che per il cancro al seno, gestione emergenziale, paura della morte.

 

Quando devi combattere una malattia incurabile, quale il cancro, due sono le azioni richieste ai soggetti. La cronicizzazione e la normalizzazione.

La cronicizzazione è la riposta medica; se con le terapie, dato che non è al momento possibile l’estirpazione totale della malattia, si riesce a renderla innocua o meglio a farla convivere con l’organismo ammalato, la morte è, per un lasso di tempo non dato, scongiurata ed esiste possibilità di vita.

La normalizzazione è la risposta etica alla malattia; se io riesco a rendere normale (normalizzare) la mia vita di malato cronico, cioè rendo la malattia un aspetto della mia persona, ma non l’unico aspetto, esorcizzo il senso di impotenza e immobilismo dovuto alla paura della morte e torna spazio per una possibilità di vita nella mia vita.

 

Cronicizzazione e normalizzazione esorcizzando la paura spostano l’obbiettivo dall’idea di sopravvivenza all’idea di qualità di vita finché c’è vita e questa è una grande conquista per la persona malata.

 

Ora sposto il discorso alla pandemia in corso ed alle decisioni dello Stato.

 

Dal punto di vista del governo, la società nella sua complessità è il malato aggredito dalla malattia.

La cronicizzazione di covid 19 avviene in due modi; da una parte attraverso la creazione di strutture ospedaliere o di gestione della malattia sul territorio adeguate alla portata della malattia e dall’altra attraverso la chiara comunicazione di comportamenti sociali che impediscano il contagio quali il distanziamento sociale, l’uso dei sistemi di protezione individuale, nuove regole di igienizzazione dei luoghi di vita sociale e via dicendo.

La normalizzazione si ottiene rendendo la vita del malato, cioè della società, il più abituale possibile, questo significa il più simile possibile a come era prima della malattia.

Queste due cose insieme sono la più forte medicina contro la paura e verso la possibilità di nuova vita che in termini di società significano ordine sociale e auto mantenimento cioè sopravvivenza economica di tutti.

 

Ma torniamo ai miei tre giorni di storia d’Italia.

 

Giorno 1:

Scilla non sai come avrei voluto, con mascherina sulla faccia e standoti a due metri di distanza poter comunque festeggiare con te i tuoi 50 anni, il giro di boa che trasforma la giovinezza in sapienza, la frenesia in pacata lentezza, la voglia in appagamento.

 

Giorno 2:

Mattarella con la mascherina sulla faccia, tutto solo sull’Altare della Pace ha forse voluto significare un’idea di normalizzazione, no non credo! Vi sarebbe salito senza mascherina dato che non c’era alcuna possibilità di contagio là su quell’Altare nella sua solitudine desertica ma altamente simbolica.

Ha però passato l’idea di emergenza ad oggi ancora incontrollata; l’idea che ci si deve ancora difendere da qualcosa di sconosciuto del quale nulla si sa; ha urlato agli italiani che le istituzioni ancora hanno obbligo di limitare e imporre perché non in grado di gestire.

Ha alimentato la paura sociale della malattia, dell’ignoto, della morte, passando attraverso la rassicurante immagine della mascherina indossata.

E mi chiedo: “Ma non ci ha pensato oppure è stato voluto?”

 

Giorno 3:

Dopo averci significato attraverso il Capo della Stato con immagini che parlavano da sole di quanto ancora fossimo in piena emergenza Covid, nel momento in cui era stata preannunciata una fase due di convivenza con il virus, cioè di normalizzazione, cioè ancora di vita il più abituale possibile, ciò non avviene, ma anzi avviene il contrario, per lo meno attraverso le parole del Presidente del Consiglio. Tutto è mantenuto come prima, la fase due non comporta la libertà della persona.

Ma la curva scende ed il coefficiente del contagio è sotto la soglia di emergenza altrimenti non si sarebbe potuto parlare di fase due.

Qualcosa non mi torna, ma ciò che mi torna è che lo Stato, a parole, mi ha detto di non essere in grado di cronicizzare la malattia.

Eppure nuovi ospedali sono stati realizzati, la sanità ha retto l’impennata di contagi e ormai sono a tutti note le misure personali, stabilite dai virologi, per contrastare il contagio. Se esci per Milano, infatti, tutti indossano le mascherine, fanno file ordinate nel rispetto delle distanze, se ci si incontra uno dei due cambia marciapiede o fa qualche passo in strada oltre le macchine parcheggiate e, se serve parlarsi, si sta a molto più di un metro.

Le parole di Conte, inoltre, mi hanno anche detto che lo Stato non è in grado di normalizzare la malattia infatti al mantenimento della paura per il contagio ancora in essere, le parole di Presidente hanno, in primis, aggiunto la paura della punizione sociale, rendendo la libertà personale, che la normalizzazione doveva ristabilire come segno di normalità, un illecito anche in questa fase; ed, in secundis, aumentato ulteriormente la paura collettiva per la personale sopravvivenza di ognuno rendendo la possibilità di riapertura della propria attività lavorativa un privilegio e non un diritto.

Conte si è chiaramente presentato come un Ente controllante, ma non certo cronicizzante e normalizzante.

Io mi chiedo allora, lo Stato non è in grado veramente di cronicizzare e normalizzare la malattia oppure la situazione è funzionale a qualche altra finalità? A quale potenza sta pensando il potere, qual è la sua Gloria? … per rubare le parole Mauro Magatti.

 

Io da un organismo decisionale, preposto al governo dello Stato nella fase due mi sarei aspettata il ripristino dei diritti civili sospesi nell’estrema emergenza, libertà personali e diritto al lavoro, ma ciò non è avvenuto; mi pare, invece, che sia avvenuto il suo ribaltamento: mantenimento dell’emergenza e della paura collettiva per poter protrarre la sospensione dei diritti civili.

Torno a chiedermi: Perché ciò è avvenuto? Qual è il disegno del Presidente del Consiglio? Qual è il ruolo del parlamento in tutto questo?

Qual è la scadenza temporale per cui la sospensione dei diritti civili passa da essere prerogativa del potere esecutivo per gestire un’emergenza ad abuso di potere di un’oligarchia sulla collettività?

Dov’è il punto di non ritorno che dovrebbe far insorgere il parlamento e la piazza?

 

Io al momento ho solo sensazioni.

 

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Togliersi

Ricordo quando, bambina, ascoltavo le storie del nonno e della nonna sui tempi di guerra. Il nonno raccontava il suo essere soldato. Il generale della sua brigata gli aveva affidato la cura del proprio cavallo personale, Tom, forse perché il nonno era di animo gentile. La sua guerra fu spesa nel cercare di tenere in vita il cavallo del generale sempre e comunque ed il cavallo sopravvisse le battaglie e così il nonno la guerra.
La nonna, invece, raccontava la sua guerra fatta di bombardamenti e rifugi, di quando le sirene suonavano e lei si legava addosso le sue piccolissime bimbe e si lanciava nel primo rifugio che trovava e li aspettava sperando in cuor suo che quella cantina non divenisse anche la loro tomba.
Le loro storie avevano il sapore di un’avventura spaventosa alle mie orecchie; io non riuscivo a cogliere il lato tragico del pericolo e della morte, perché erano storie raccontate dai nonni ed i nonni portavano solo felicità nel mio mondo bambino e …. qualche storia che faceva paura.
Quello che mi impressionava però era la dimensione mondiale di quelle paurose avventure perché i nonni mi dicevano che tutto il mondo era messo a ferro e fuoco dalle bombe e dall’odio della guerra e che tutte le persone cercavano di sopravvivere come potevano.
La globalità io non l’ho imparata a scuola, l’ho appresa, ben prima, dai racconti dei nonni e da allora per me la parola “mondiale” ha sempre avuto una declinazione oscura, legata a quelle avventure paurose; di mondiale nella mia testa per molto tempo c’è stata solo la guerra.
Poi sono cresciuta ed il mondo ha perso i connotati della favola ed è diventato reale, e nel passaggio da fantasia a realtà si è trasformato nel luogo ove i piedi poggiano. La mia attenzione era riposta in altro, la vita era altrove totalmente slegata dalla dimensione della paura e della resistenza.
Ma ecco che la parola mondiale torna nel giro di poche ore a legarsi a un estensione spaziale ed ad un’avventura comune, di nuovo una lotta non più tra uomini, ma dell’essere umano.
Oggi il senso del pericolo e della morte è ben chiaro ai miei sensi adulti mentre io scandaglio i fatti attuali con il significato della parola mondiale compreso nei racconti dei miei nonni ancora presenti nella mia memoria.
Il mondo gioca in difesa e resta a casa. Mi colpisce l’idea che mondiale sia l’azione del togliersi, non tanto come contrasto al virus, che è territorio medico, ma come azione comune e contemporanea. Stiamo tutti agendo nel medesimo modo con il medesimo fine. Un restare a casa ordinato, silenzioso, gioioso nelle sue manifestazioni comuni di supporto reciproco. Un togliersi che non ha bandiere e che rimane uguale sia nel totalitarismo che nella democrazia. Un togliersi che appartiene a ogni luogo della terra.
Un’azione che viene dalla paura forse, ma che ha reso per la prima volta nella storia l’essere umano un unico organismo agente.
L’abbiamo raggiunta sul serio la globalità.
I particolarismi, i nazionalismi, ma anche le organizzazioni sovranazionali sono un passo indietro rispetto al io resto a casa.
È una globalità di specie come probabilmente la si percepirebbe guardando la terra da un altro punto dello spazio.
Mondiale ha assunto una valenza inedita.
C’è una nuova civiltà in esso compresa.
Chissà se l’essere umano ne saprà cogliere l’aspetto positivo della completa comunione o ne sfrutterà quello negativo della incondizionata comune reazione?
Chissà cosa ne penserebbero i miei nonni?

La terza età

Erano anni grassi quelli in cui lei era nata, tutto era abbondante; così pure la vita che si era allungata a dismisura tanto che venivano continuamente inserite nuove età. La terza, aveva lasciato il posto alla quarta, poi alla quinta ad in fine alla sesta, età nella quale, pare, fosse ora lecito morire. Lei ricordava l’ultima età dei suoi nonni che era stata la terza. In realtà quel periodo era durato circa trent’anni, durante i quali i progenitori avevano vissuto da vecchietti, idealmente malati, senza mai uscire di casa e in attesa della morte che però si era fatta aspettare fin ben oltre i loro novant’anni con grande felicità della donna, allora giovane donna, che adorava andare a mangiare risotto, frittata di pane e caffelatte da loro. I due vecchietti alla fine si erano abituati a questa terza età che non finiva mai, perché trent’anni son tanti, e alla morte avevano smesso di pensare, ma rimasero comunque sempre idealmente malati e sempre chiusi in casa, tranne che per andare a fare la spesa. Anche queste sporadiche uscite erano però sempre identiche, soprattutto per gli alimenti comprati che consistevano in: formaggio crescenza, prosciutto crudo, pane, patate, prezzemolo, uova, riso, verdure verdi da fare crude e cotte, grana, mele e tamarindo. Ogni cosa doveva essere sempre la stessa per qualità e quantità, in onore della morte in arrivo; così per colazione si mangiava caffelatte e pane secco, per pranzo, risotto o pastasciutta con verdure cotte, formaggio e purè o patate olio e prezzemolo, per cena frittata col pane, prosciutto e mele cotte. Il tamarindo serviva per la granita di metà pomeriggio.

La donna ancora conservava nell’orecchio il rumore del trita ghiaccio rosso e bianco e, ogni volta che un suono simile la colpiva, le tornava in bocca il sapor di granita; allora lei sospendeva ogni attività la stesse occupando, si sedeva e, semplicemente, sorseggiava quel liquido passato pensando ai suoi due nonnini, un tempo tanto amati.
La sua era, non era un tempo che sapeva contemplare la morte; non c’era età in cui essa fosse considerata; figuriamoci attesa. Così ora alla donna, ormai sulla soglia della propria terza età, si erano un poco confuse le idee perché, a lei, la vita era andata chiudendo molti capitoli; la maggior parte dei quali in anticipo sulle previsioni di una normale esistenza se non addirittura nel momento in cui ancora si trovavano al loro stato embrionale e perciò l’età che avrebbe dovuto chiudere e tirare le somme di un’intera vita si trovava in totale mancanza di argomenti e la lasciava spiazzata.
Terza, quarta, quinta, sesta età; ma cosa diavolo ci avrebbe fatto lei? Il matrimonio era chiuso e dimenticato; i figli ormai indipendenti e senza più richieste di accudimento; il lavoro si era esaurito di suo; anche una grave malattia era sopraggiunta ma poi passata. Cosa mai ancora mancava alla sua vita? L’unica cosa che le veniva in mente era la permanenza; tutto si era contratto e risolto in corti; anche la malattia, che era grave e che al tempo dei suoi nonni l’avrebbe lentamente e dolcemente avvicinata alla morte, per lei era stata invece un episodio, uno dei tanti, venuto e andato.
Così, ora, sulla soglia della terza età, le toccava nuovamente inventarsi qualcosa “da” vivere perché non c’era più nulla “per cui” vivere essendo i capitoli della sua vita praticamente tutti già chiusi.
Poiché non poteva concedersi la stagione del raccolto, doveva nuovamente piegarsi alla semina.
Che fatica! – pensò.
La sua terza età veniva così molto ad assomigliare a quella che chiamavano adolescenza con due uniche diversità: il fatto che avvenisse non dopo l’età dell’incoscienza, bensì dopo un’intera vita vissuta e per la spinta alla vita che era basata sull’entusiasmo delle premesse, nella prima età d’oro, mentre poggiava i suoi piedi sulla disillusione nata delle molte conclusioni occorse, nella seconda.
Quegli anni grassi avevano reso la sua vita una serie di cortometraggi non abbastanza lunghi da occupare tutta una esistenza; così ora a lei toccava, da buona regista, trovare un nuovo copione da voler mettere in scena e spendere la sua terza età e forse anche la quarta nel casting di nuovi attori, significati e scene.
L’immobile attesa chiusa sul passato e sul futuro, propria degli ultimi anni dei suoi nonnini, in lei era invece diventata dinamica aspettativa aperta su un futuro ancora pieno di promesse giovanili solo date in assaggio, ma mai compiutamente concesse.
E’ in questo modo che l’età moderna ha sconfitto la morte: negando il tempo della contemplazione contemporanea della vita vissuta assieme alla morte da vivere ed imponendo continuamente nuove adolescenze di un’esistenza resa episodi in serie.
Eterna giovinezza.

Non uccidete la madre

Una futura regina al suo terzo figlio che a tre ore dal parto appare al mondo fresca come una rosa, bellissima nella sua perfezione di donna regale, ma cancellata nella sua fatica di donna che genera vita.
La compagna di un rapper che, a un mese dal parto, viene esaltata da voce di donna perché nel suo corpo non mostra già più alcun segno della maternità appena conclusa.
Due parti famosi. Due maternità uccise. Sacrificio umano al Dio politically correct.
In termini assoluti non è grave perché due e’ un numero tendente a zero se comparato alla quantità di femminile che popola il mondo.
E forse non è nemmeno grave perché ogni sacrificio ha in sè la potenza stravolgente dell’oggetto sacrificale che prende forza dalla propria esecuzione per divenire valore assoluto dentro al martirio.
Come l’altare a forma di bocca fagocitante mangiava vergini bruciandole nella sua saliva lavica per tenere buono il Dio vulcano. Così il palcoscenico moderno sbianchetta l’imperfezione della madre che genera vita, per esaltare la perfezione della donna che non ha generato.
La regola tribale, con radici nella paura e fiori nella volontà di sopravvivenza comune, vive ancora fiorente nel mondo contemporaneo non più in grado di sostenere la visione della vita che deforma la vita per vivere.
Il parto proietta infatti la donna dritta nel mondo della fatica che diventa elemento strutturante del suo corpo e della sua vita.
È la fatica che, negando la donna, fa nascere la madre e le permette di assolvere il proprio ruolo privato di accudimento. Il passaggio da donna a madre è un dare la vita nei due significati di sacrificare sé e generare altro da sé.
Questa è la maternità dentro alla quale l’essere umano si sviluppa. Questo è il significato di mamma.
Ogni madre nella maternità rivuole poi indietro la donna che sa di essere stata aprendo la strada al più grande miracolo che l’umano sia in grado di fare. Ella infatti, nel tempo, riesce a mondarsi dalla fatica e a riappropriarsi di tutta se stessa; ed è permettendo a se stessa di tornare donna che regala la libertà di Essere al propria progenie.
La donna che sacrifica se stessa per dare la vita, autorizzandosi a generare fino nel profondo del significato crea un nuovo umano e si rinnova donna arricchita dall’essere anche madre.
Ma questo e’ un processo che richiede anni. La madre deve potersi esprimere come madre ed essere riconosciuta tale dal mondo esterno affinché possa, ella stessa, esistere madre nell’intimità.
La società dovrebbe così farsi uomo e saper proteggere questo passaggio che si esprime in un corpo deformato, nella stanchezza cronica, nel ripiegamento totale verso la nuova vita; nell’incapacità di essere lavoratrice a tempo pieno.
La società dovrebbe cullare la madre, che ha ucciso la donna sapendo che col tempo genererà vita altrui tornando a se stessa donna.
Ma questo è un valore esplosivo come un vulcano e fa paura perché non controllabile e così il mondo contemporaneo ha spolverato di nuovo l’altare. Vi imola madri esaltandole donne, ma così facendo toglie all’umanità le mamme e alle donne la completezza.
Genitore 1, genitore 2. Punto.

Il regalo

Ho ricevuto un regalo.

È un oggetto speciale perché ha tanti volti. Lui mi sorride per l’amico che me l’ha dato in dono, il quale, molti anni fa, un giorno, cedendomi il passo attraverso una porta, si è incastrato nelle mie viscere.

È buffo come a volte non siano solo gli spazi ad essere varcati negli usci. Perciò ora, se accarezzo il pacchetto, finisco dritta nelle mie budella in compagnia del mio amico.

Il regalo poi mi sorride perché è un dono non scelto, lasciato alla sorte; infatti è stato comprato impacchettato…

E vi chiedete perché mai il mio amico mi si sia incastrato dentro?

Lui lo ha certamente comprato attirato da una frase scritta in bel corsivo; oppure forse semplicemente tirandolo fuori dal cesto….

Così la sorpresa a spacchettarlo è stata doppia; mia e sua.

E vi chiedete perché mai il mio amico mi si sia incastrato dentro?

Poi il regalo ride perché è un libro. Per di più cartaceo. Mi sono sempre chiesta perché mai i libri ridano così tanto quando li sfogli e l’unica risposta che son riuscita a trovare è che probabilmente gli autori, scrivendoli,  producano alle pagine così tanto solletico da farle sganasciare per anni a venire.

Sono settimane che mi porto quel dono in borsetta e, quando nel giorno accade il momento inutile di una qualsiasi attesa, io apro il mio regalo e leggo. Non è una storia, sono tante piccole storie di tanti piccoli o grandi viaggi che hanno cambiato la vita di chi li ha affrontati.

Sono tutti viaggi che stanno nel tempo di un’attesa e questo è il primo motivo per il quale io sorrido a mia volta al libro.

Molti di quei viaggi io li ho già percorsi, ma non mi era mai saltato in testa di catalogarne la meta, così ora leggendo di ignoti nelle parole di uno sconosciuto io vedo in sequenza gran parte della mia vita e mi stupisco di quanto ricca essa sia.

Mi sorprendo anche un poco poiché l’autore sa molto di me, senza avere alcun pensiero della mia umanità.

Così oltre ad essere viaggi nelle vite altrui questo è un viaggio nella mia, tutto compreso dentro al tempo di un’attesa.

E vi chiedete perché mai il mio amico mi si sia incastrato dentro?

Ogni libro ti sorride con le sue parole; l’armonia di questo scritto è data dall’abbondanza degli aggettivi scritti in sequenza. Così i viaggi son tutti grassi, forniti di quella ciccia non soda, ballonzolante che addosso alle donne esprime bellezza di forme. È invece scarno di verbi, così non devi pensare all’agire e puoi riposare e goderti il viaggio, sempre stando sospeso.

Il libro ha un titolo interessante: “Controvento”. Chissà se l’autore, Federico Pace, è un velista e sa che controvento non si può andare, gli si può solo bordeggiare accanto. In realtà la cosa poi non è così importante. Lui forse non sa, ma io so che ogni bordo è un piccolo viaggio, con una propria meta, una propria andatura, una propria inclinazione. Ogni lato del controvento ti cambia la prospettiva perché ti sposta rispetto a dov’eri, ma soprattutto ogni bordo deve essere aggiustato mentre lo si percorre perché la zona di controvento cambia in continuazione innamorata com’è del vento che gira.

Leggendo Controvento bordeggio dentro alla mia vita, ancora non l’ho finito, ancora non l’ho finita, ancora non so quale sarà l’ultima posizione del vento.

E vi chiedete perché mai il mio amico mi si sia incastrato dentro?

Due madri

Due donne, due enormi sorrisi, la loro grande felicità che si chiude nell’abbraccio con l’amico comune che certo ha parte in tutto questo. Poi la carrozzina spinta con orgoglio dalla mamma che ha partorito mentre la mamma che ha sostenuto chiude entrambi in un tremulo abbraccio. Sono i primi due genitori mamme d’Italia. Io guardo quelle immagini di felicità e vittoria, ma il mio cuore si stringe e più io guardo più una profonda tristezza prende possesso del mio corpo, come una morsa che dal cuore si guadagna le altre membra finche’ arriva al cervello. La felicità vista, divenuta dolore sentito ora esplode in un istintivo pensiero. Un pensiero non pensato, ma provato. Tutto di me urla: “Povera creatura, ultima vittima della libertà del mondo adulto”. E poi un nuovo pensiero non pensato. Oggi l’umano ha perso in quella gioia stravolgente delle due mamme. Ho visto una nascita abortire la propria umanità nella celebrazione di ruoli uguali. Ho visto un parto che in primis si e’ arrogato un diritto egoista, il diritto alla genitorialità e solo in seconda battuta ha dato la vita. Un parto che pur dando alla luce un frutto vivo ha creato morte. E’ morta l’armonia di maschile e femminile come sinonimo di crescita umana. E’ morto il diritto all’intima esposizione alle due caratteristiche che fuse tra loro danno origine a Uomo e Donna e a tutte le loro infinite declinazioni. E’ morto il diritto all’imitazione come formula più semplice di crescere adulti. Ogni madre di figli cresciuti senza la presenza quotidiana di un padre sa che non basta il profondo amore per fare di un bimbo un adulto, ci vuole anche quotidiana esposizione. Ogni donna cresciuta negli anni in cui il femminile era sinonimo di inferiorità ed oppressione e veniva negato alle bambine, conosce la fatica di recuperare l’equilibrio che produce felicità. Crescerai piccolo bimbo come e’ cresciuto mio figlio e come sono cresciuta io con un grande vuoto che non e’ d’amore, ma di umano. Per l’egoismo altrui ti sarà chiesta una fatica innaturale e non necessaria. Spero le tue piccole spalle siano nate forti. Ben venuto al mondo cucciolo.

Il caffè al bar

Cosa c’è di più rilassante che un caffè al bar? Quando sospendi ogni corsa e ti fermi, seduto con a fianco la vita, obbligata, anche lei, a sedersi. E’ un attimo di sospensione; se tutti lo facessimo contemporaneamente il mondo perderebbe molte delle proprie fatiche e diverrebbe leggero da competere con l’idrogeno. Il caffè possiede poteri opposti, come un vecchio stregone, ormai esperto delle sue arti; e come lui non sbaglia mai. Il caffè ti da la carica per riprendere la corsa e nello stesso tempo ti sospende dalla vita per permetterti di riposare. Eccita e fa dormire assieme. Che meraviglia! Il caffè, in qualsiasi modo lo si prenda, è forse l’unico gesto sacro che questo millennio sterile di significati si è permesso. La sua sacralità, che tanto appaga, si manifesta in un meraviglioso rito che per anni è stato ripetuto uguale a se stesso in ogni singolo bar di questa meravigliosa penisola. Una porta che si apre, un buongiorno distratto spedito nel vento, una domanda: “ per lei?” una risposta ed una scelta: “lo prendo al banco” oppure “posso sedermi” e poi il momento più sacro e più bello: il servizio. Il gesto del barista che si sposta dal suo luogo e porta il caffè a te, che accomodato nel tavolino scelto con cura anche se di fretta, aspetti. È questo il momento che sospende la vita e frema la fretta. I soldi meglio spesi sono i centesimi dati al servizio nei bar. Quando il cameriere arriva con la bevanda fumante e magari una brioche a cullarti, e fa niente se ingrassa, la si prende lo stesso, e si piega per metterti tutto quel bendidio davanti con un bel sorriso sulle labbra, questo è il caffè, qui c’è la sua magia. E i baristi esperti lo sanno, quelli che da una vita aprono il bar presto presto la mattina per non lasciare senza caffè te che esci all’alba ad iniziare la tua corsa per la sopravvivenza. Loro non ne perdono uno di servizio, un gesto pagato, è vero, ma che possiede la gentilezza e la bellezza insita nel fare per gli altri. Irrinunciabile perché sacro e rituale all’umanità. Però oggi i baristi esperti stanno andando tutti in pensione ed i bar si popolano di giovani volenterosi e simpatici gestiti però come automi dalla catena del marchio. A loro viene spiegato come muoversi, quando muoversi, cosa dire, cosa non dire, cosa fare, quando farlo e soprattutto cosa non fare. E così addio alla magia del caffè. Ora te lo devi portare al tavolo, dove nessuno viene a sparecchiarti, dove nemmeno è presente lo zucchero ed i tovaglioli che  teli devi andare a prendere scoprendo da te dove caspita sono. E se per caso vuoi anche una brioche capita anche che tu debba fare una seconda fila un poco più in là sul bancone perché il ragazzo del caffè non è autorizzato a muover il braccio fino all’espositore delle brioches, costerebbe troppo alla compagnia ….

Bene io mi rifiuto di subire tanta gentile ed organizzata piattezza, io voglio il mio caffè, voglio il rito, che non mi obblighi a fare anche in quel momento prezioso di sospensione, voglio essere servita, voglio un gesto di attenzione anche se retribuito, anzi soprattutto perché retribuito.

A nulla serve l’eleganza dei locali, la modernità della gestione se viene meno il vero significato della pausa caffè. Ora quando entro in questi mega meravigliosi moderni bar invece di uscire felice esco infastidita ed abbruttita. Io credo che con me si abbruttisca un poco anche il mondo che per necessità si abitua a tale manchevolezza e perde un pezzo del bello del umanità: Guadagnare fornendo un servizio invece che obbligando il cliente a servirsi. Ma questa è, forse, solo la mia ipersensibilità …

L’Amazzone

Lei era un Amazzone, ma non del tipo vecchio; non era una donna guerriera senza un seno, o con un grande seno, a seconda del significato che si vuole dare alla A. Lei era un’amazzone moderna, nata per colmare di significato il vaso vuoto del gender, categorizzazione dell’umana natura di recente invenzione, scritta a tavolino per sostituire definitivamente l’uomo proletario, quello maschio puzzone e guerriero, con una serie di declinazioni pseudo-femminili più mansuete e rassicuranti per l’establishment, ma devastanti nei confronti della essere umano.  Mentre l’uomo moderno decideva se soccombere a questo destino tracciato oppure mostrare gli attributi e restituire all’umanità e alla civiltà il valore del maschio, lei si era presa per decisione uno dei posti disponibili nel grande paniere del gender. Lo aveva fatto anche per una secondo motivo molto più frivolo: era stufa di dividere i bagni pubblici con la categoria handicap e finire con il farsela nei pantaloni, a causa del wc troppo alto, ogni volta che le scappava pipì e non riusciva a trattenerla fino al bagno di casa. Quindi forse il suo fine ultimo, in fondo, era solo ottenere un gabinetto pubblico dedicato. Quello che è certo è che lei non scelse di divenire un’amazzone, semplicemente le capitò. Lei che adorava il suo essere donna, con quel corpo imperfetto, ma armonioso, e quei sensi oltremodo sensibili, ma altrettanto coriacei, si trovò trasformata in Amazzone. Dovete sapere che prodotto dell’età moderna, oltre al gender e al politically correct è anche il cancro; ma mentre i primi due sono schemi culturali, il terzo è uno stato umano. I primi due sono imposti da fuori, c’è, per ora, ancora un margine di scelta; il terzo avviene, te lo becchi e ci fai i conti senza scelta. Per diventare Amazzone deve venirti un cancro al seno, non un cancrino, che spaventa da morire, ma lascia pochi segni; uno devastante, aggressivo ed esplosivo che impone le sue regole e non gliene frega niente se sei spaventata oppure no. Il cancro al seno sta al divenire Amazzone oggi, come i riti di iniziazione stavano al divenire Uomo tempo fa. È un’iniziazione fatta di avvenimenti sequenziali ai quali devi sopravvivere. Primo: la perdita momentanea dei simboli esterni del tuo essere donna con la caduta dei capelli e l’annerimento delle unghie; serve a destabilizzare tutte le tue sicurezze in relazione a chi sei tu rispetto agli altri. Secondo: la perdita momentanea della dignità del vivere con la disintegrazione fisica che ti annienta sdraiata su un letto; serve a tarare la tua forza di volontà e la tua voglia di vita. Terzo: la perdita definitiva del tuo intimo potenziale di madre con la distruzione del ciclo mestruale; serve ad insegnarti l’accettazione incondizionata dell’imprevisto. Quarto: la perdita definitiva di parte della tua femminilità esteriore con il sacrificio alla vita della mammella, se sei fortunata, delle mammelle, se non lo sei; serve a trasformarti in qualcosa di fisicamente diverso.  Poi però, se passi attraverso a tutto ciò senza perderti nel mondo nero della paura e della rinuncia che porta alla morte diventi, per merito, un’Amazzone e puoi chiedere a gran voce e per diritto, il tuo bagno pubblico dedicato, oltre che mettere la tua stanghettina nella lista gender sotto la voce: tipologia Amazzone. Quale delle due A descrive l’Amazzone moderna iniziata dal cancro? Decisamente non la privativa, ma la rafforzativa. Infatti le Amazzoni di oggi sono dotate di grandi seni primo perché la mutua passa anche la chirurgia estetica ricostruttiva e quindi perché no; secondo perché tale violenta iniziazione non può che presupporre uno stato di profonda trasformazione in senso rafforzativo; non a caso si parla di sopravvivenza a cinque anni, mica di guarigione. Non più, allora, le donne guerriere di un tempo, ma le donne donne donne di oggi; donne periodico se lo vogliamo esprimere in termini matematici. Così, a parte infinocchiare gli strateghi della nuova società occupando un posto destinato a creature più mansuete e gestibili, le Amazzoni vivono, prescelte, lo stato di “conclusione”, o meglio: “di conclusione sommata a tutti i suoi sinonimi come elencati nelle enciclopedie: compimento, deduzione logica, risultato, realizzazione, definizione ”. Vedono ogni declinazione della vita in modo diverso; di essa percepiscono l’aspetto unitario, quello che porta perfezione e bellezza. Un’Amazzone appena nata, magari ancora sdraiata nel letto di un ospedale, vede, per esempio, il mondo maschile che nel corso della sua vita di semplice donna le si è sviluppato attorno tornarle indietro nella sua forma più pura. Sta tutto lì davanti ai suoi occhi; imperfetto come il vivere lo ha reso, ma incontaminato come l’attimo che l’ha generato. Solo l’Amazzone è in grado di percepire, in un istante, la meravigliosa complessità e perfezione di quel mondo estraneo che per anni era parso più ostile che amico; quasi inferiore per capacità dimostrate.  In un istante lo tocca, unico e vario, e sente come ormai superato il suo essere discordante. In un attimo secondo è in grado di vedere risolta in sublime unità ogni particolare singolarità che è stata presente nella sua vita.   C’è l’amore paterno che come un’ombra si stende e protegge, sempre presente, incondizionatamente, un passo indietro, ma mai di spalle. C’è l’amore filiale, tremulo e spaventato, che ancora ha bisogno di vedere per rassicurarsi. C’è il matrimonio spezzato che mostra il vero significato della sua indissolubilità attraverso domande che pretendono per risposte liberatorie rassicurazioni. C’è l’uomo che ti ha guardato negli occhi in mille maniere e si siede silenzioso perché ormai le parole non servono più, c’è ancora l’uomo che sorprende se stesso per un legame che ha scoperto non legare; e c’è l’uomo che non parla parole pericolose, ma che ha scritto nel corpo ogni singola lettera del suo pensiero; c’è l’uomo piantato nel suo volere cui però scappa la curiosità per un poi che non lo annienti e c’è anche l’uomo che in preda al panico nero si aggrappa là dove può, ma non scorda chi sei. Ognuno declinato a suo modo dentro alla propria vita che da Amazzone si accarezza con amore sincero. Singoli tasselli di un mondo estraneo ed affascinante in grado di restituire agli occhi d’amazzone un mosaico di pure armonie che trasformano la carne maschia in euritmico tutto. Capita la ricchezza che questo universo ha portato al suo mondo, l’Amazzone si sporge un poco nel paniere del gender e occupa con il suo piede anche un’altra posizione, lo fa in modo nascosto per non farsi accorgere, ma è ben determinata a non farselo portare via fintanto che l’uomo come lei lo ha visto non verrà a pretenderlo per se medesimo.

Happy Holidays

Happy Holidays, è scritto sulla quasi totalità delle vetrine del centro di Milano, una unica ne ho vista con un timido alberello e la scritta Marry Christmas in rosso. Camminavo per Buenos Aires ed un pensiero cresceva dentro di me. “Occidente senza palle!” Proprio nell’accezione che usano le donne quando lo dicono degli uomini. Quindi limitatamente con il significato di “pauroso”, ma ampliamente nel senso di “coglione incapace di essere uomo” e di “debole essere involuto non degno ” . Pare sia il politically correct che impone parole senza senso e senza storia e vieta parole pregne di ricordi, di atmosfera e di costume in nome del nulla laico. È la scelta di pochi fatta a tavolino con intenti ideologici poi abbracciata e coccolata dal mondo del commercio che spera così di aumentare i propri utili natalizi, ops scusate, holidariani. Alla setta dei nichilisti ideolocizzati, dei politically correct, ed al gregge dei commercianti che temono le parole che portano significati riparando nel niente voglio raccontare una storia.
C’era una volta, poco più di duemila anni fa, una giovane donna di nome Maria cui un giorno, in sogno, fu annunciato l’arrivo di un figlio di progenie divina ed in seguito a quell’annuncio il suo ventre iniziò a crescere. Lei ne conosceva molti di figli degli Dei perché sua mamma per farla dormire da piccola era usa leggerle Omero e le storie antiche. Ma nella sua cultura cose del genere non avvenivano più. Loro aspettavano sì un profeta salvatore, ma poteva mai essere che tutta l’attesa di un popolo si concludesse con il suo bambino? Lei non era che una semplice serva di quel unico Dio ai tempi amato da tutti e ora stava per diventare la madre di suo figlio. Che fare? Decise di fare la volontà del suo Dio e lasciò crescere quel bimbo divino dentro di sè. Andò in contro al suo destino e ne parlò al suo promesso, un falegname di nome Giuseppe. Giuseppe che era uomo buono ed amava molto Maria e pure molto amava Dio decise di accogliere e proteggere il frutto divino che stava crescendo dentro alla pancia di Maria. Era quasi giunto il termine quando venne loro imposto di recarsi a Betlemme per il censimento, così Giuseppe prese Maria, la caricò su un asinello ed assieme lasciarono Nazareth per Betlemme. Tutta la Palestina era in viaggio con loro, chi a nord chi a sud, tutti si stavano spostando. Arrivati a Betlemme non fu possibile trovare un luogo al chiuso per riposare perché erano già tutti occupati. Giuseppe guardò Maria e capì che il tempo era giunto. Si guardarono negli occhi ed ognuno lesse nello sguardo dell’altro lo stesso pensiero; si perché faceva paura diventare i genitori del figlio di Dio, ma loro erano due giovani forti si strinsero la mano e si dissero l’un l’altro: “sì”. Era, però, ora di muoversi, il bimbo arrivava. Giuseppe scorse una grotta poco fuori Betlemme, e vi accompagnò Maria. Vi fece entrare l’asinello ed un bue che pasceva lì intorno per scaldare quella dimora occasionale, ma tanto opportuna. Qui Maria, scaldata dal respiro dell’asinello e del bue, diede alla luce un bellissimo bambino che chiamò Gesù. Giuseppe uscì un attimo per riprendersi da tutte quelle emozioni e non riuscì a credere ai suoi occhi quando vide una quantità infinita di pastorelli venuti a rendere onore al piccolo nato da donna, ma figlio di un Dio. Lo avevano saputo guardando il cielo perché sulla grotta si era appoggiata una stella filante e loro avevano capito all’istante. C’erano anche tre dignitari stranieri vestiti a festa che portavano alcuni regali. Lì di fianco pascolavano tranquilli i loro cammelli mentre i dignitari si presentarono a Giuseppe. Erano Gaspare, Merchiorre e Baldassarre e portavano con sè oro incenso e mirra da donare al figlio di Dio bambino. Giuseppe, toccato da quel popolo di semplici e di re si fece da parte e lascò che le persone entrassero ad adorare il suo piccolo bimbo. Maria guardava quella inaspettata processione e poi abbassava lo sguardo innamorato sul suo bambino. Giuseppe guardava Maria felice dello sguardo di lei. Ad un certo punto un’espressione di profondo dolore velò il viso dell’amata; nessuno lo percepì, ma lui di lei conosceva ogni espressione e la cosa non gli sfuggì. Si chiese cosa mai avesse pensato Maria, ma lei non glielo disse mai. Nessuno sapeva ciò che lei sapeva. Il suo piccolo bimbo era venuto al mondo per imolare se stesso e regalare l’eterno all’intera umanità. Lui sarebbe vissuto solo trentatreanni e lei avrebbe dovuto contare gli anni a ritroso. Sapeva che le era dato di amare a tempo definito. Gli anni andarono ed il destino di quel piccolo bimbo divino si compì assieme a quello di Maria, di Giuseppe e di tutto quel popolo in adorazione. Lui venne crocifisso con le mani inchiodate e Maria dovette vivere la passione del figlio e lo scempio del corpo di lui, poi però visse anche la sua resurrezione. Così l’intera umanità ebbe a disposizione l’eterno. Da allora molta parte del mondo ricorda la nascita di quel bambinello. Lo fa addobbando un abete, creando un presepe, scambiandosi doni, andando alla Messa e scambiandosi auguri con due parole : Buon Natale. Lo fa perché sa che quel giorno di duemila e pochi anni fa al mondo fu fatto un regalo speciale. Il divino si fece umano, l’amore fu messo alla prova ed un bimbo morto poi crocefisso rese la vita eterna regalando all’umanità l’aldilà e la libertà di scegliere. E che la storia che vi ho raccontato appartenga alla realta’, alla religione oppure alla legenda non interessa. Interessa solo sapere di avere a disposizione l’infinito e poterlo festeggiare.
Sapete cos’è il niente in nome del quale sono imposte due parole senza senso? E’ solo un altro modo di percepire l’eterno.