Taxi Driver

Le loro auto avevano appena concluso uno strano balletto non pensato ne’ voluto. Si erano mosse in funzione l’una dell’altra nell’angusto spazio di fronte alla torre fino a fermarsi parallele. “Io devo aspettare “ aveva detto Lei. “anch’io” aveva rimbalzato lui; poi si erano sorrisi come se si conoscessero da sempre, ma in realta’ erano solo due estranei trovatisi a compiere la medesima azione nel medesimo piccolissimo luogo. Qualcosa pero’ era scattato. Lei lo guardo’ dritto negli occhi, inclinando un po’ la testa sul lato in modo spudorato, come se fosse una cosa normale tra estranei. Lui allora era sceso ad aprire tutte le portiere, bagagliaio compreso, restituendole senza smettere, un altrettanto insolito sguardo di sfida misto a docezza; poi aveva preso a parlarle: “anche tu aspetti qualcuno?” “Si, mio figlio, beh tutta la squadra, li porto al treno.” “Anch’io tutta una squadra, la porto al treno”. “ Ma tu sei un vero taxista?” “ Si!”
Qualche altra parola buttata li’… Non era il suono delle parole quello che entrambi stavano ascoltando, ma un potentissimo richiamo che stava sotto alle parole parlate e dentro agli sguardi lanciati. Eco dell’umano esistere.
Non ci fu tempo per altro perche’ il primo gruppo di ragazzi era arrivato e l’attenzione di tutti fini’ su una bottiglia di Champagne dimenticata nel bagagliaio.
Ragazzi e borse caricati in macchina, le venne l’istinto di invitarlo a cena, cosi’ senza sapere nulla di lui; ma il suo corpo fu piu’ veloce della sua mente e si ritrovo’ al volante senza piu’ possibilita’ di azione.
Occasione persa, ma non l’insolito dialogo sotto alle chiacchiere.
Alla prossima taxi driver.

grown up and grown down

Cresciuta adulta viveva la vita tranquillamente quando un giorno al tramonto mischiato alla folla, quel giovane corpo, asciugato da sole e sale, l’aveva di colpo Scresciuta fino a riportarla alla soglia dell’ adolescenza.
Lo aveva solo intravvisto capendo subito che quella era la bocca, quelli i capelli, quelle le braccia, quelle le cosce che già in sogno aveva accarezzato.
Era bello, così maledettamente bello.
Smise tutto e andò da lui.
Ad ogni passo verso quel sole le caddero gli anni di dosso come cadono i petali al vento.
Era come essere attratti ad un punto magnete cui non si può resistere tramite una forza lieve e potentissima assieme che tira là.
Lui era la sua gravità.
I muscoli abbronzati cancellarono il suo peso e lei si seppe di nuovo leggera.
Il sorriso sicuro le riarse la bocca fino a rendere difficile ogni dialogo.
Non le importavano più le parole, Lei voleva solo ballare e saltare e ridere e toccarlo. E poi ricominciare.
Il futuro era tutto ancora da vivere. Il presente era di nuovo suo.
Per quindici passi perse il tempo e trovò l’amore.

Guardare

Lei non era visiva, ormai sapeva che non dagli occhi entrava il turbamento. Guardare le produceva poco niente; era donna. Ma viveva in un mondo di immagini così si era adattata: mentiva per non apparire troppo diversa, oppure per vedere se avrebbe imparato qualcosa imitando, allora si impegnava a scrutare ogni singolo centimetro della loro pelle. Ma tutti quei corpi, quei muscoli in mostra continuavano a non suscitarle alcuna emozione. Riusciva solo a pensare che quella era la maniera degli uomini, non certo delle donne e sicuramente non sua. A tratti riconosceva la bellezza, era arrivata a vederne in alcuno i canoni della proporzione, ma lì il cerchio si chiudeva.
L’emozione non nasceva.
Aveva iniziato a pensare che tutto quel carrozzone di immagini e movimenti fosse un banchetto orchestrato e poi imposto sulla sua testa per sfamare appetiti diversi e sempre uguali a se stessi. Un codice che non voleva accettare il suo modo proprio e cercava di sovrascriverlo imbrigliando la fonte prima dei sentimenti al guardare, senza mai faticare nel confrontarsi con quel che lei portava iscritto per nascita sul suo dna.
Lei possedeva il segreto più grande del mondo: riusciva, senza nemmeno volerlo, a creare la vita.
Che poca cosa era il guardare se comparato al generare.
Questa era la legge non scritta dell’universo, quella che scendeva i veri carichi della vita. Quella che per secoli aveva creato il profondo odio ed anche il grande bisogno di sottomettere.
Un pomeriggio le cadde l’occhio su due giovani uomini intenti a scambiarsi il primo bacio; era l’energia che lei sentiva passare tra quelle due bocche così vicine a dirle che era un primo bacio.
Si impose di non smettere di guardare anche se sapeva che l’educazione chiedeva di non intromettersi in quello spazio privato.
Uno degli uomini era un dio greco, l’altro uno stuzzicadente, ma in quel momento la forza dell’attrazione aveva annientato ogni loro diversità; erano due poli opposti che stavano impercettibilmente, ma inesorabilmente collassando in un punto posto alla stessa distanza da ognuno.
Lo sguardo reciproco raccontava che avevano perso la loro battaglia di resistenza; caduta ogni difesa erano ora nudi uno di fronte all’altro, spinti solo del loro bisogno reciproco.
Si baciarono e lei provò qualcosa, sentì l’emozione del bacio dentro al suo stomaco.
Più il bacio si faceva profondo più lei sentiva nascere dentro di se’ un infinito affetto, no anzi riconobbe l’amore.
Non staccò gli occhi da loro finche’ loro stessi non si staccarono l’un l’altro stravolti dal senso dell’inatteso.
Lei sentì anche quello ed anche quello riconobbe.
Solo allora spostò lo sguardo altrove per tornare a rispettare la loro intimità.
Era la prima volta che il suo corpo reagiva alla vista di un bacio omosessuale, beh in realtà alla vista di un qualsiasi bacio…
Si domandò se alla fine non avesse sul serio imparato ad emozionarsi semplicemente guardando e se il suo stare tanto comoda dentro a quel bacio così diverso non significasse aver fatto la pace con l’opprimente codice opposto.
Poi ricordò che nel momento del bacio in lei era nato amore e si confuse.

Gioia

La lunga giornata di lavoro l’aveva addormentata di un sonno buio, uno di quelli vuoti che non conoscono messaggi ne’ desideri. Era emersa da quello stato di incoscienza perché qualcosa dentro di Lei l’aveva di colpo spinta verso l’alto dandole una gran botta sul cuore.
Le servirono alcuni secondi per tornare in se’. “Son morta? Son viva? Chi sono?” Non vi fu risposta ad alcuna di queste domande. Si prese allora qualche altro secondo per frugare nella sua mente e cercare di trovare qualche certezza mentre tentava di alzarsi, ma niente.
Quel nulla la spaventò così tanto che una scarica di adrenalina iniziò a farla tremare tutta. Ascoltò il suo tremito sperando portasse chiarezza ai pensieri. Nessun pensiero ancora, però sentì che nel suo corpo una serena felicità’ aveva preso il posto del tremito.
“Perché sono così felice?”
Le pareva che una gioia nuova avesse invaso ogni sua cellula. Un senso di soddisfazione nato fuori dall’ordinario aveva occupato ogni suo interstizio libero.
“Bene se sono felice son viva!”, almeno una domanda aveva avuto risposta!
“La botta al cuore”, si disse, “forse non è stata altro che il venire al mondo di questa strana felicità”.
“Ahh penso anche!” pensò.
“ Ma perché sono così felice?”
Fu il cuore a risponderle dicendole che la causa di tanta serenità era stata quella scelta. Una decisione sulla sua vita presa nei giorni addietro che non era nata dal bisogno o dall’occorrenza, no era nata dal semplice voler fare perché era da farsi; perché in quella scelta la sua vita le avrebbe aderito addosso come un tubino stretto segnando le sue forme.
Pensò che questa fosse la prima decisione libera della sua vita, l’unica, fino ad allora, capace di spingere la propria esistenza là dove Lei voleva.
Un tassello verso il giusto.
Ecco ora le era tornato alla mente anche il suo nome e con lui tutto il suo vivere.
Finì di sollevarsi e andò in cucina a prepararsi un panino.

Maschi puntata 2- Il primo Bacio

Ogni mattina scendeva le scale di legno cercando di non farle scricchiolare, imboccava la porta, percorreva il piccolo giardino, apriva il cancelletto ed era in strada. Ci impiegava circa venti minuti a raggiungere la scuola. I primi dieci erano spesi con il naso all’in su per guardare le forme dei Bow Windows ed il colore dei mattoni, i secondi dieci li percorreva a piedi scalzi, con le scarpe in una mano ed il quaderno nell’altra intenta ad imprimersi nella memoria le forme della natura che da quelle parti era rigogliosa per le piogge e curatissima per i giardinieri. L’ultimo tratto prima dell’edificio vittoriano che ospitava la scuola era un lungo fiume dove un muro in mattoni grigi alto fino alla sua vita impediva di cadere in acqua e lei ci camminava semplicemente a fianco.
È qui che i ragazzi della scuola tergiversavano prima delle lezioni e si dilungavano alla fine della giornata. Qui organizzavano i loro pomeriggi e le loro serate quando la scuola non li impegnava con qualche attività curricolare.
È qui che Lei lo aveva notato il primo giorno, quando tutto è nuovo e tutti sono sconosciuti. Aveva la pelle più scura della sua, capelli neri, occhi marroni e un fare sicuro di sé. Era straniero e così il suo sguardo le appariva ancora più interessante. Le piacque da subito, ma era troppo timida e giovane per ogni altro pensiero.
Si conobbero in classe sulle note di “Another Brick In The Wall” dei Pink Floyd; era stato loro assegnato il compito di ascoltare e trascrivere il testo assieme.
Iniziarono a raccontarsi della rispettiva vita, quella vera a casa nel proprio paese di origine, quella di tutti i giorni, a volte faticosa, a volte bella.
Si parlavano solo in classe perché fuori non era possibile, loro non appartenevano allo stesso gruppo. Lui ragazzo di strada, lei ragazza che la strada non l’aveva mai vista nemmeno da lontano. Però tra loro c’era qualcosa che andava oltre ciò che erano. Attratti fisicamente l’un l’altra, divennero amici. A quindici anni, erano abbastanza grandi da sapere che l’amicizia che nasce dall’attrazione è cosa ben diversa dall’amicizia normale. È una perla in mezzo ai sassi da proteggere e coltivare se non si vuol smarrirla nella massa.
Così ogni giorno, quando riuscivano a rimanere soli si facevano gentilezze reciproche oppure, quando erano in gruppo, si sorridevano da lontano con quello sguardo complice ormai a tutti e due noto.
Venne la sera della festa della scuola, fu una serata memorabile, resa ancora più indimenticabile dalla consapevolezza che nel fine settimana seguente ognuno avrebbe preso l’aereo per tornare a casa propria.
Balli, canti, giochi, baci, abbracci, dediche, indirizzi, promesse a rivedersi; poi la festa finì e venne il tempo di rientrare a casa.
Lui apparve dal nulla e le chiese se poteva accompagnarla a casa, in realtà la traduzione letteraria della sua domanda sarebbe: se poteva “camminarla a casa”, frase che, se ci si pensa bene, è dolce di per sé; lei timidamente acconsentì, felice. Si nascosero agli altri sparendo assieme nel buio lungo il fiume, arrivati al giardino, lei gli disse: “togliti le scarpe”. Lui si tolse le scarpe e poi, con grande garbo, le prese la mano. Come era bello camminare con lui al fianco, a piedi scalzi e mano nella mano. Mai prima, al tocco estraneo, aveva sentito stringersi le budella in quel modo.
Per un poco camminarono silenziosi, poi Lei iniziò a raccontargli tutte le sue sensazioni quando, di giorno, attraversava il giardino e si fermava a guardare i fiori che ora rilucevano alla luce dei lampioni. Lui l’ascoltava sorridendo. Arrivarono ai Bow Windows, si rimisero le scarpe, ma continuarono a tenersi per mano. Fu il turno di Lui a parlare: le raccontò della sua casa incastrata nelle mura romane della città storica dalle cui finestre, non a Bow Window, si vedeva l’oceano ed il sole sorgere. Lei gli rispose che invece dalle sue finestre si vedeva solamente un orribile incrocio ed un parcheggio. Risero di tanta diversità.
Ma ecco il cancelletto. “Io sono arrivata, questa è casa mia.” Ci volle un attimo prima che lui le lasciasse la mano; si girò con tutto il suo corpo verso di Lei guardandola fissa negli occhi e solo allora si staccò da Lei. Quello sguardo la trafisse come fanno le spade. No non era uno sguardo da saluto era uno sguardo d’assalto, ma anche tenerissimo. Lui si avvicinò al suo orecchio bisbigliandole “all’anno prossimo”, poi si scostò un poco e le diede un bacio sulla bocca. Durò un istante ed un’eternità. Nessuno l’aveva mai baciata sulle labbra prima. Era dolce e lieve ed il suo cuore volò a mille. Mai, nella sua vita, aveva vissuto momento più bello di questo.
Il bacio finì, ma non la sensazione di essere al centro dell’universo di lui.
“Ti scrivo quest’inverno, ti va?” “Sì, mi va.”
Lei aprì il cancelletto, percorse il piccolo giardino, imboccò la porta girandosi per un ultimo sorriso e salì le scale di legno cercando di non farle scricchiolare e questa volta ci riuscì perché i suoi piedi non toccavano terra.
Lui le scrisse stupende lettere quell’inverno e continuò a farlo gli inverni seguenti per alcuni anni a venire, poi però, un giorno, come tante altre persone della sua vita, si perse nel passato.

Il viaggio degli affetti

Ci sono molti modi di viaggiare; questo e’ il mio viaggio degli affetti. Quando guardi il mondo attraverso gli occhi dell’amore ogni luogo acquisisce un sapore più intenso. Ogni colore solca l’esperienza come l’aratro la terra ed il tempo si frammenta in momenti indimenticabili.
Il mio viaggio dell’ amore si chiama Florida, Missouri e Arizona; ancora gli Stati Uniti.
Prima tappa mio figlio, la Florida, Miami e Fort Lauderdale; la terra dell’abbondanza. Qui tutto è massimo: il caldo: tropicale, l’architettura: avveniristica, i gabbiani: avvoltoi, le persone: una sintesi di anglosassone e latino, la lingua: due idiomi parlati indifferentemente da tutti, l’ospitalità: famiglia.
La Florida ti esplode nel meglio che tu possa essere. Sei la miglior madre del mondo per l’esperienza di vita e di vela che tuo figlio sta vivendo. Sei l’espressione migliore del tuo animo spagnolo fuso in quello americano e riesci a raggiungere le persone come se in questo posto tu ci fossi nata. Sei serenità, sei leggerezza, sei pace.
Questo Stato ti apre le proprie case per rendere il tuo Natale vissuto nell’intimità di una famiglia che non ti conosce, ma ti invita nella propria dimora preparando per te un regalo speciale come si fa con gli amici cari.
Il sole, le palme la sabbia ed il mare addobbati a festa ti estraniano, ma poi subito ti risucchiano nelle atmosfere che ti sono profondamente note e care.
Così tu lasci lo stato del sole felice per tanta esperienza di umanità. Con tuo figlio negli occhi, il Natale nel cuore e la pace nell’animo.
Seconda tappa il Missouri, piatto dall’alto, ma ondulato dal basso, è un luogo lento, un poco diroccato, ove il tempo si ferma nei rigidi dettami della religione mormona e amish. Il ritmo sfumato ti offre un esperienza di profonda America fatta di apple pie e quilting. Riprendi fiato immergendoti in un passato presente che ti respinge ed accoglie contemporaneamente.
Ti ci immergi come ci si immerge in un bagno di latte per addolcire la pelle e coccolare l’animo stanco.
Lasci questo tratto di mondo che più che spazio è tempo, conscia della tua estraneità, ma beata perché ormai sai che vivere ogni aspetto del creato rimane un’esperienza bellissima.
Terza tappa l’Arizona…. questa è terra sacra, va trattata con attenzione…
Qui oggi vive una parte importante dei miei affetti, a Natale toccata da una grande tragedia, allora non resta che semplicemente stare uno a fianco dell’altro aspettando che l’aria di questa terra speciale compia il miracolo di guarire la grande ferita.
Ci accompagnammo mano nella mano mentre il freddo pungente si trasforma in caldo rassicurante e noi con lui.
Le abitudini interrotte ritornano come se le lune non si fossero mai succedute ed i fuscelli non si fossero trasformati in alberi adulti.
La famiglia rinasce nella consuetudine.
Ve l’ho detto questa è terra sacra…..va vissuta in profondità. E’ spinosa, è arida, è difficile e pericolosa, ma ti apre a visioni infinte ove tutto è possibile e nulla impossibile. Qui sei leggerezza e pesantezza, sei vita e sei morte, sei giovane e sei vecchia, sei te stessa e sei altro, sei tutto e sei niente.
Piena di tanta abbondanza io torno a casa, lasciando Valerio a Milena, la mia famiglia a l’un l’altro, Norma alla terra, d’ora in avanti eterna casa della sua splendida risata, e un pezzo di me a questo luogo che mi è caro oltre ogni immaginazione.

Maschi puntata 1- Il sapore speciale della vita

Riuscite a ricordare il primo momento dal sapore speciale della vostra vita?
Il suo sapeva di polenta e latte.
Accadde nell’estate dei suoi dieci anni, quando ancora era la Regina della Collinetta. Come aveva fatto a diventare Regina?
Questo ve l’ho già raccontato!
A quei tempi il mondo era facile; aveva solo 4 classificazioni: scuola, vacanza, maschio, femmina.
Mentre le prime due categorie erano chiare in testa a tutti, le ultime due non poi così tanto. Si sapeva che tutti gli esseri viventi erano divisi in due grossi gruppi: maschi e femmine a parte le lumache che boo!
Quello che ti faceva appartenere all’uno o all’altro gruppo era semplicemente il modo in cui facevi pipì, perché la cacca la facevano tutti comunque nello stesso modo.
Insieme alla cacca qualsiasi altra azione della vita era svolta ugualmente sia che si fosse maschi o femmine. Così, essendo identici se non per quell’unico bisogno, tutti i ruoli di quella società fanciulla erano declinati sia al maschile che al femminile, e lei essendo un capo e femmina era diventata regina.
Ovviamente esisteva anche lui, il capo maschio, che facendo pipì nell’altro modo, era invece ritenuto il Re della Collinetta. Loro erano di regal nascita semplicemente perché nati per primi.
Erano grandi amici, si cercavano sempre, organizzavano i giochi assieme, si scazzottavano spesso tra loro, si prendevano in giro e si difendevano l’un l’altra. A correre…. lui la batteva di poco, essendo più grande, ma non doveva distrarsi se voleva vincere; a botte… lei era pericolosa perché le dava di santa ragione e spesso aveva la meglio; a salire sugli alberi… ognuno di loro ne aveva conquistato uno alto, così erano pari; a giocare al pallone… lei era brava in porta per il resto faceva schifo, lui era bravo ovunque; a sciare… lei era brava, lui un imbranato; … lei non diceva parolacce, lui sì; …lei conosceva tutti, lui non così tutti; per il resto…andavano entrambi a scuola e andavano in vacanza sempre nello stesso posto.
Queste erano cose naturali, date dal fatto di essere bambini.
La vita era così, non cambiava mai, punto!
Quell’estate verso inizio settembre venne organizzata una festa al ChicchiBum, chissà come mai? Non lo avevano mai fatto prima! … Comunque … tutti i bambini furono costretti a parteciparvi essendo ancora obbligatorio per tutti seguire i genitori. Erano una bella ciurma che rasentava le cinquanta teste.
Il Chicchibum, luogo non lontano dalla Collinetta, era normalmente off limits per i bambini dato che per arrivarvi bisognava attraversare una strada trafficata e la cosa non veniva ancora loro permessa; pertanto quella appariva un’interessante trasferta perché si sarebbe potuto giocare, cosa rara, con i bimbi vicini.
Immaginatevi il lavoro del re e della regina: la preparazione al viaggio, il coordinamento delle truppe, l’assegnazione dei ruoli una volti arrivati, cosa fare e cosa non fare a seconda di cosa facevano gli altri….
Il giorno arrivò e la festa iniziò.
Allo scrocchio dell’una la polenta fu pronta. Ai bimbi toccò polenta e latte. Vennero tutti richiamati dai giochi, messi in fila e serviti. Anche al re e alla Regina venne riempito il piatto fondo e consegnato un cucchiaio. Lui le disse: “vieni con me, non farti vedere.” Lei gli corse dietro. Si ficcarono a mangiare sotto ad un tavolo di plastica bianca coperto da una grande tovaglia. Lui fece in modo che la tovaglia li nascondesse da tutti, grandi e bambini. “Ecco qui non ci trova nessuno possiamo starcene un pochino soli io e te! Ti piace la polenta?” disse lui abbracciandola e cercando contemporaneamente di non rovesciare il contenuto del piatto. Lei si girò verso di lui trovandosi con il viso stranamente troppo vicino al suo naso e, guardandolo, gli vide uno sguardo appiccicato agli occhi che non gli aveva mia visto addosso. Un brivido come non ne aveva mai provati le corse giù lungo tutta la schiena e lo stomaco le si ribaltò, poi, come d’incanto, perse tutta la sua sicurezza e spavalderia. Si senti disarmata e spaventata da quella strana nuova intimità. Sentì che tale vicinanza di colpo aveva creato una distanza incolmabile tra lei ed il suo amico maschio. Nel giro di uno sguardo lui non era più il lei maschio, ma un essere distinto capace di far sorgere profonde e bellissime emozioni.
Qualcosa del genere doveva essere successo anche a lui perché quello sguardo ravvicinato per un attimo le parve come imbarazzato ed assieme emozionato. L’occhiata li zitti  entrambi e modificò per sempre il loro sorriso da spensierato a complice.
Finirono la loro polenta e latte nascosti al mondo, ma presenti l’un l’altro come mai prima.
Fu così che sotto a quel tavolo, con la polenta in bocca e la faccia del suo amico a un centimetro dal naso, Lei trasformò lui in Lui, estinse la propria fanciullezza e fece nascere una realtà sconosciuta e tutta da scoprire.
Il mondo dei maschi da allora non fu mai più lo stesso per Lei.

Maschi puntata 3 – Lezioni di storia

Capitava che quell’immagine inchiodata nella sua memoria tornasse a trafiggerla lasciandola senza respiro e senza possibilità di cambiamento. Era un volto sul quale si erano posati i suoi occhi una mattina di tanti anni prima quando la vita stava sbocciando e tutto era ancora da scoprire e da vivere. Non ricordava perché Lui si fosse girato, sapeva solo che si era girato e le aveva parlato. Sapeva anche che per anni Lui aveva continuato a sederle accanto e a parlarle accarezzandola con gli occhi e con i suoi sorrisi. Erano diventati amici, ognuno con la propria vita che però scompariva quando, durante quelle lezioni di Storia i loro corpi si sfioravano, forse con intenzione o forse no, proiettandoli in una dimensione dove la voce del professore diventava la grancassa dei loro sensi impazziti. Lei sapeva che quella confusione apparteneva ad entrambi, ma per tutti quegli anni nessuno dei due ne fece parola all’altro. Era un legame non legato. Era un amore non amato. Fra loro c’erano amici, fidanzati, luoghi di vita e forse loro stessi che mai permisero all’emozione della confusione di trasformarsi in altro. Riuscirono solo a sedersi sempre uno a fianco all’altra per tutti gli anni di università, sfiorandosi. Riuscirono anche a condividere un appartamento per un intero anno, ma la distanza tra loro continuò ad essere infinita ed infinitesimale allo stesso tempo. Poi un giorno ci fu un grande abbraccio, lui le sorrise con gli occhi come era solito fare, lei bevve quello sguardo come era solita fare corrispondendolo, si strinsero forte e la loro vita iniziò a correre verso destini distinti; non si videro più.

Negli anni ogni tanto Lei era tornata ad accarezzare quel volto con gli occhi rivivendo ogni singola emozione delle lezioni di Storia.

Negli anni Lui era diventato il suo sospeso.

Un sospeso non millesimato dallo scorrere del tempo perché passato e presente ancora erano parte della stessa realtà; poi, un giorno, Lei si era resa conto che il volto della memoria probabilmente non era più così nella realtà, che lo scorrere della vita lo aveva sicuramente solcato come aveva solcato il suo.

Fu allora che il sapore del suo sospeso passò da dolce ad amaro.

Lei non riusciva a corrompere quel non detto, quell’esplosione di sensi racchiusa nelle ore di lezione, con il trascorrere del tempo della vita nella realtà perché avrebbe significato doverli trasformare nel niente che erano.

Ciò significava anche dover sopprimere l’attualità della propria giovinezza ammettendo a se stessa che il presente aveva definitivamente sovrascritto il passato annientandolo e Lei questo non riusciva a pensarlo, tanto meno ad viverlo.

Fu così che tagliò il tempo e ci mise in mezzo la vita, scelse di allontanare la gioventù da sé, la spostò un po’ più indietro per mantenere intatte le lezioni di Storia.

Il volto di Lui non venne più scalfito dal passare del tempo; quello sguardo profondo ed il suo dolce sorriso rimasero sempre intatti dentro di Lei, nessuna nuova immagine di Lui li sovrascrisse, Lui rimase bellissimo non invecchiando mai.

Ogni qual volta Lei tornava con gli occhi a frequentare il corso di Storia, Lui aveva un luogo per continuare a sfiorarla, forse con intenzione o forse no, trafiggendola e lasciandola senza respiro.

Lei salvò la propria integrità rendendo Lui immortale.

 

Il sidro

Era un pomeriggio d’estate, afoso, di quelli in cui anche il camminare è fatica immane, così nella città deserta non restava che fermarsi a bere un sidro all’ombra delle paglie invecchiate sotto alle quali i baristi erano soliti posizionare i tavolini di legno fuori dagli ingressi dei loro bar.
L’uomo non aveva voglia di bere da solo, così individuò due figure sedute, già intente nell’assaporare la dolce bevanda, che per qualche strano motivo parevano interessanti e con un cenno di capo chiese se fosse possibile sedersi al medesimo tavolo.
Non era un comportamento strano sedersi con estranei a quei tempi. Era abbastanza normale entrare in un locale ed unirsi a inverosimili compagnie che trovavano il loro unico scopo di essere nel dividere un tavolo per accompagnare la calura pomeridiana incontro alle brezze serali.
Uno degli uomini già seduti era cicciottello, scuro nei tratti, con un grande sorriso. Tutto di lui pareva rilassato. Non era a suo agio con quel caldo, probabilmente era straniero in quella città, forse abituato a climi più freddi. Il secondo uomo, alto e asciutto, aveva capelli grigi e riccioli, sembrava molto riservato, chiuso in se stesso e decisamente a suo agio in quel clima.
Forse era stata la grande differenza tra le due persone che aveva catturato l’attenzione del terzo uomo; quei due erano così agli antipodi l’uno dall’altro che egli pensò sarebbe stata un’interessante distrazione dal caldo cercare di decifrare cosa li tenesse assieme perché i due, ognuno con la propria modalità, l’uno rilassato ed espansivo, l’altro riservato e raccolto chiacchieravano amabilmente.
Dopo aver ordinato un sidro per il nuovo arrivato e dopo alcuni convenevoli i due ripresero a parlare tra loro. Stavano scarabocchiando qualcosa sui tovaglioli di carta; un disegno pareva una croce forata nel centro con tre gradoni per ogni lato, ed era l’uomo abbondante a tratteggiarlo sulla carta cerata, l’altro invece stava tracciando una serie di dieci cerchi collegati tra loro da linee e sicuramente disposti secondo un qualche senso in tre diverse colonne.
Pareva si stessero spiegando a vicenda una qualche rivelazione che ognuno di quei due disegni nascondeva, ma non si stavano convincendo a vicenda della veridicità dei significati, pareva piuttosto che stessero confrontandosi sulle affinità che le due rappresentazioni avevano nel loro intimo.
Il terzo uomo si concentrò sui simboli, non li aveva mai visti prima; mentre li guardava qualche parola della conversazione raggiungeva la sua mente persa nei disegni: significato della vita, io sono mi manda, sarò chi sarò, tre mondi, cinque mondi, spazio e tempo, verticale orizzontale, maschio femmina, andare e tornare, luce emanazione, uno molti, conoscibile inconoscibile, desiderio e vita, parola e vita, sogno e vita….
Più loro conversavano, più lui si appassionava ai discorsi oltre che ai disegni.
Man mano che ascoltava i due parlare, i disegni prendevano significato, erano rappresentazioni semplici ed immediate delle loro religioni che però, ad approfondirne il senso, raccontavano di profondi costrutti filosofici sulla natura del mondo e sul senso della vita
Quei due uomini avevano avuto la capacità di concentrare un universo di idee in un simbolo.
Dopo le loro spiegazioni reciproche, guardando quei disegni lui si sentì come iniziato ai significati veri della vita. I due simboli non coincidevano esattamente sui significati, ma nella loro diversità esprimevano un’incredibile similitudine nell’aspetto fondamentale di unità che davano a tutte le manifestazioni della realtà ed al sentire dell’individuo; un legame dato dall’essere parte di un tutto troppo grande per essere contenuto nella sola fisicità;
un’unità nell’ infinità ed infinità nell’unità.
Era proprio questa idea latente nei due pensieri, che mai si erano incontrati durante la loro formazione, che aveva attirato la sua attenzione. Lui che tanti anni aveva speso in pensieri simili senza arrivare mai a tanta semplice globale essenzialità ora si trovava disarmato davanti alla forza dei simboli.
Pensò se anche lui potesse disegnare qualcosa sulla carta cerulea, ma la sua filosofia e le sue credenze religiose non avevano partorito simboli tanto potenti. Gli unici disegni che gli venivano in mente erano il simbolo matematico dell’infinito, quell’otto orizzontale chiuso in se stesso e la croce immagine di morte, supplizio e sofferenza seguita poi dalla resurrezione; nessuno dei due racchiudeva il significato profondo della vita e la spiegazione del mondo su cui lui aveva tanto pensato e studiato.
Alzò gli occhi verso la sua compagnia e chiese: “Ma voi chi siete?” Il cicciottello rispose: “un guaritore”, lo smilzo disse: “un profeta”. “Tu chi sei?” gli chiesero. Lui rispose: “Un filosofo.”

La Dama del Lago

C’era una volta una Dama del Lago, tal titolo le era stato regalato da un’amica che vedendo i suoi riccioli in controluce stagliarsi contro l’acqua rilucente, un giorno in gioventù, le aveva detto: “Sembri un Dama” e Lei aveva aggiunto ridendo: “del Lago!”. Da allora era diventata la Dama del Lago. Era bello tal nomignolo perché portava con se’ nobiltà e leggerezza, profondità e naturalezza, spazio infinito e fortificazione, così le era diventato caro e se lo era tenuto stretto. Tal nome, come spesso accade ai nomi, aveva iniziato a vivere da se’ ed i rapporti tra loro si erano ribaltati, non più lui serviva lei, ma lei era diventata sua suddita e la distanza tra loro si era ampliata fino a divenire palpabile. Quel nome racchiudeva la purezza perfetta del suo stato nobile, dovuto a quella nascita spontanea, purezza incorruttibile dal passare del tempo, momento fisso nel passato, momento fisso nel presente e momento fisso nel futuro; mentre lei aveva vissuto il tempo dentro a quel nome e, azione dopo azione, tutto quel fare l’aveva curvata spostando il suo sguardo dall’orizzonte del lago al campo del suo palmo . Nonostante ciò Lei era ancora vassallo del suo nomignolo e cercava nella nuova visione creata dal fare delle sue mani anziché dall’essere della sua persona quella purezza di gioventù, l’infinito e la fortificazione. Il nome, vedendola così ricurva, ma così tenace, per grande affetto verso di Lei volle riavvicinarsi. Allora, un giorno, non più in controluce di un tramonto sul lago, ma di fronte ad una lampada puntata al suo lavoro, la solita amica le aveva detto non sarai più La Dama del Lago, ma sei comunque La Dama dell’Ago! Così il nome tornò a Lei, passando per un apostrofo, lasciando il tempo fisso di gioventù ed abbracciando il tempo vissuto di maturità.