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Univeristà

Era stata colpa delle iniziali dei loro cognomi. Tutte stavano in fondo all’alfabeto. Quella fu la causa del loro incontro; non fu la passione ad unirli, non la scelta universitaria; semplicemente due S e una V.
In mezzo a quattromila matricole, loro tre si erano seduti uno a fianco all’altro in quell’aula ai pre corsi di matematica. Lei in mezzo e loro due uno di qui e uno di là. Mentre la lavagna si riempiva di numeri per rendere semplice qualcosa che per le loro menti creative semplice non era, si erano piaciuti non solo come persone; avevano capito di essere simili per passioni e scelte.
Attrazione fatale quando hai diciannove anni.
Ogni mattina arrivati in aula si cercavano con gli occhi; il primo teneva il posto per gli altri per evitare di dover seguire la lezione seduti sulle scale o peggio in fondo in piedi. Ogni mattina i loro occhi si agganciavano, loro si salutavano, si sedevano fianco a fianco e tutto iniziava.
Venne il momento della scelta delle materie perché ai tempi in università ancora libero arbitrio e autonomia personale erano sovrani; così, a parte matematica dove per lettera del cognome ti veniva assegnato il professore, tutti gli altri esami erano liberi. Sette erano i corsi da seguire; sette le scelte da fare.
Per loro quasi non fu necessario mettersi d’accordo su quali corsi e con quali professori intrattenersi durante il primo anno; tutti e tre scelsero in autonomia praticamente le stesse lezioni.
Erano diventati compagni di studio.
Da allora per i successivi cinque anni si aiutarono in ogni modo possibile per portare a termine i vari progetti assegnati e passare gli esami.
Non rimasero in tre a lungo perché durante la prima lezione del corso di storia dell’architettura, davanti a lei si sedette un ragazzo basso e bruno; lei lo chiamò oppure lui si girò autonomamente, questo è perso nella memoria, ma da tre divennero definitivamente quattro due S una V e una C.
Furono anni divertenti, faticosi ed appassionati. Il ricordo di alcune giornate e soprattutto nottate di studio rimane impresso nella memoria. Nel pensionato dove le ragazze non erano ammesse oltre una certa ora, ma lei ci passò con loro notti intere per finire di disegnare; a casa ad Abbiategrasso dove la mamma, a fine giornata, cucinava la carne impanata più buona del mondo e la vita era bella; in giro per le città a rilevare chissà che cosa per conto dei professori sotto al sole cocente o la pioggia cadente; infine in Spagna dove assieme o in staffetta si formarono professionalmente. Arrivarono tutti alla laurea; tutti dottori in Architettura e poi Architetti.
Persona e sostantivo iniziarono a coincidere.
Quella divenne la loro vita.
Questo succedeva trentasei anni fa, ma dentro di loro è successo solo ieri. In questa giornata lunga quasi quarant’anni la vita è scorsa portando figli, gioie, soddisfazioni, dolori e difficoltà. Alcuni di loro rimasero presenti uno nella vita dell’altro, altri no si persero nei propri affanni, ma non importa perché in fondo è passato solo un giorno. Ora come allora loro ci sono uno per l’altro qualsiasi cosa il futuro riservi.

I tre amici

Era una giornata di sole e l’aria aveva il profumo della tranquillità. Pareva come stare dentro a una panetteria appena dopo la cottura del pane. Le loro chiacchiere serene saturavano di felicità quella strada asfaltata, troppo grossa per essere di alta montagna.
Loro erano lui, un ragazzo magro dall’ aspetto corvino; la sua fidanzata straniera e lei l’amica incontrata per caso molti anni prima, che aveva conquistato le profondità del suo cuore senza però provocare in lui l’amore. Stavano andando a fare una scampagnata fino su al ristoro; quello bianco con le finestre di legno e gli scuri rossi sulla curva con la cascata.
Erano così giovani!
La’ si fermarono a mangiare un panino con una birra bionda ciascuno, seduti all’aperto per respirare tutta quell’aria serena senza capire che loro ne erano la causa. Dopo il caffè, le due ragazze salirono in macchina per arrivare ancora più su sulla cima della montagna; là dove crescevano quei fiorellini blu grembiule delle elementari che tanto adoravano. Lui semplicemente seduto le guardava allontanarsi assieme. La straniera si mise alla guida mentre l’amica le si sedeva a fianco. Acceso il motore, l’auto partì. Chiacchieravano amabilmente senza badare troppo alla strada, quando l’occhio dell’amica cascò sul dirupo di fianco alla curva che stava arrivavano. Lei pensò che la macchina fosse troppo veloce; si chiese, anche, se la straniera sapesse cosa stava facendo, ma non fece in tempo a finire il pensiero che l’auto imboccò la curva con una traiettoria troppo larga e troppo veloce. Fu un attimo e furono nel vuoto. Era un dirupo profondissimo, guardando sotto capirono che non avevano scampo. Quel lungo volo le avrebbe uccise. Precipitarono coscienti della loro morte. Poi fu il nulla.
Quando tornò in sé stava camminando a fianco all’amico; si sentiva molto stordita. Rammentava il dirupo, la caduta e non si capacitava come potesse ora semplicemente camminare al fianco di lui. Lo guardò. Era triste; il suo sguardo aveva perso la luce; era come se fosse sul punto di dirle qualcosa che, però, gli stava costando uno sforzo infinito e lo invecchiava.
Lei conosceva a fondo l’amico e, in quello sguardo, tutto le fu chiaro. Allungò una mano verso di lui, gli sorrise e gli disse: “Sono morta vero?” lui non alzò gli occhi, rispose semplicemente: “Si’”. Continuarono a camminare affiancati. Aveva ancora un domanda da fare. “E’ morta anche lei?” “ No si è incredibilmente salvata…” Lui si girò verso di lei con il viso stravolto dal dolore, si abbracciarono forte e più che una stretta quello fu un avvinghiarsi l’uno all’altra per non lasciarsi andare. Senza pronunciare parola lei gli disse: “Sarò sempre con te” e lui a lei: “Non ti dimenticherò mai.” Poi l’aria tra loro si ispessì, i loro mondi si separarono, i due amici si persero.
Lui sposò la fidanzata straniera e costruì per lei una grande fazenda. Gli anni passavano e lui ogni mattina portava alla moglie dei fiori freschi e con i fiori le regalava sorrisi e abbracci ed il suo cuore felice. Spesso faceva per lei il buffone con quei fiori in mano. Ma il sorriso della moglie si era perso nel tempo ed ora non gioiva più dell’amore di quell’uomo maturo che aveva avuto tanto successo. Voleva da lui infinite premure, ma non riusciva a vedere quelle che quotidianamente le dava e così non ricambiava mai con una gentilezza. Pretendeva continua attenzione ai suoi discorsi colorati di superficialità. Il marito si annoiava a quelle mille parole, ma, per non dispiacerle, obbligava i suoi sottoposti ad ascoltarla al suo posto e rispondere con interesse a quelle parole vuote mentre lui faceva altro. L’amica, al di là dell’aria spessa, vedeva lo sforzo d’amore di lui e la grande infelicità di lei mentre la loro vita passava. Vedere respinto l’amore di lui in quel modo le procurava profondo dolore come se un pugnale le stesse aprendo il cuore. Un giorno, esausta da tanto dolore, tentò per lui tutto ciò che poteva, attraversò l’aria spessa ed andò a parlare con lei. Le chiese perché non riusciva a vedere il profondo sentimento di lui. Perché aveva preso a trattarlo a quel modo. Per tutta risposta la donna non più giovane tirò fuori una vecchia ciotola tutta sbiadita che una volta era stata colore del cielo di notte. Lei guardò quell’oggetto consumato dal tempo e le parve di riconoscerlo; in qualche modo le era familiare. “E’ tuo; glielo hai regalato tu. Non lo vuole buttare ed e’ con noi da sempre”. Disse la moglie tra forti singhiozzi. “Ma è una ciotola per far bere il cane, non ha valore! Perché è così importante che lui la butti?” le chiese lei. “Lui non ti ha mai dimenticata e ti porta nel suo profondo”. L’amica questo lo sapeva, lo aveva sempre sentito. Allora le chiese di nuovo:“Perché non riesci a ricomprendere in te l’interezza del suo cuore? Non puoi accarezzare anche quella parte di lui che mi tiene per mano?” La donna straniera non rispose, ma per tutta risposta iniziò ad urlare isterica.
No, non poteva farlo!
L’amico, sentite le urla della moglie, corse irrompendo nella casa spaventato. “Che c’è, che succede?” erano anni che lei non si trovava così vicino a lui. Infastidita e spaventata da quella donna ormai estranea corse tra le braccia di lui e lo strinse forte. lo fece senza pensare, un istinto. Lui sentì l’aria cambiare spessore. Apri le braccia lunghe distese e, frastornato, disse guardandosi in giu’: “Ma che mi succede?” Poi capì. Chiuse le braccia a contenere quell’aria ispessita, abbassò lo sguardo e con un sorriso a metà tra lo stupito ed il felice chiese: “ Sei tu, non è vero?” “Sì” lei rispose. Lui allora chiudendosi a cerchio più stretto: “Io ti ho portato sempre con me”.
Si tennero stretti, ognuno sul limitare del proprio mondo, senza più paura che quell’abbraccio potesse finire.

Noia

Contenitore del tuo vuoto mi cerchi.
Errante in una vita vacua.
Musa non ti sono.
Lascia e vai…

La nuova stagione della squadra agonistica Bug

Sabato la nostra squadra agonistica Bug è tornata in regata. Ve la presento Enrico, Valerio, Gregorio, Alessia, Francesco, Riccardo, Rocco, Stella, Giulia. Ecco l’Osa Team Bug.
Renato, Marco e William, per capacità acquisite ed età raggiunta, sono passati ad un’altra avventura: l’Osa Team Laser. Entrano nel mondo adulto da campioni. Perché loro è il titolo, nazionale e zonale dell’universo Bug. Buon Vento ragazzi!
Ma torniamo ai nostri nani.
Enrico,Valerio, Gregorio, Alessia, Francesco sono esperti, per loro una nuova stagione di regate con alle spalle il proficuo lavoro dell’anno scorso. Li conoscete già, più volte hanno sporcato d’inchiostro queste pagine bianche con le loro avventure e conquiste. Ora è tempo di presentarvi i nuovi atleti. Giulia, ballerina di fisico, già danza la sua canzone sulle onde del lago; Stella, ormai per noi Stellina, si è conquistata il suo posto nell’universo e nei nostri cuori; Riccardo, ragazzino silenzioso che sotto alla frangia alla Capitan Harlock nasconde una mente capace di molto e Rocco il più piccolo, quaranta chili di sorriso, la pelle che si scotta anche al chiaro di Luna e la rara capacità di ricordare qualsiasi cosa gli venga spiegata anche a distanza di un anno.
Non ci sarebbe squadra se non ci fosse lago e sabato il Lago di Como ha lisciato le sue acque per lasciare che il lungo traino arrivasse velocemente sulle rive di Dongo; l’Osa scafo ha solcato quell’olio nel silenzio della mattina con nove barche al seguito e una ciurma ridente di ragazzini tutti in pettorina blu, perché sui petti abbiamo voluto portare le acque.
Sbarcati a Dongo, armate le barche, dopo qualche adempimento burocratico sono tutti di nuovo in acqua, ma il vento furfante è latitante, l’aria si scalda come in una giornata d’agosto ed i ragazzi sono tutti in tenuta invernale, non ci rimane altro che lasciar uscire la loro anima bambina ed il gommone diviene un tutt’uno con nove prue e nove poppe, una grande chiatta piatta che si trasforma in rampa di lancio per stratosferici tuffi, scherzi e battute. Ma qualcosa si muove, il vento si è svegliato con il mal di testa per il troppo calore e fa fatica ad entrare, le boe vengono comunque posate. I ragazzi scattano come molle sui loro bug, sulle loro facce vedi svanire la spensieratezza, le espressioni dei visi sono ora quelle di agonisti pronti a darsi battaglia. Ogni parte del corpo si allerta e i loro gesti diventano tecnici. Girano come mosche in attesa dei cinque minuti. Bandiera su. Riccardo, l’allenatore, ha un minuto per ascoltare le indicazioni dei ragazzi più grandi e poi chiamare la partenza definitiva. L’ordine ai grandi e’; “In comitato”. Ai nuovi, alla loro prima regata, dice:” voi partite dalla parte opposta alla calca”. Poi un ultimo occhio all’orizzonte; il vento è pigro, ancora tutto accoccolato nel suo tepore di letto, non vuole stirarsi. La regata parte, ma i grandi soffrono con questo vento a singhiozzi. All’arrivo si vede una pettorina blu è Riccardo, alla sua prima regata, che vince. Grande Riccardo hai stampato un ricordo indelebile nel tuo passato! Il vento si fa serio, si è decisamente svegliato e stirato! Richy, l’allenatore ricomincia il giro, ogni atleta prima della partenza ha un momento in esclusiva con l’allenatore; ad ognuno è chiesto qualcosa, ognuno ha il suo obbiettivo, a fianco all’obbiettivo comune di vincere. Richy chiama il Pin, la Breva ha ruotato. Si parte. Con questo vento si fa sentire l’esperienza. Valerio piazza una partenza perfetta, spettacolare e domina la regata dando mezzo lago al secondo. Anche l’ufficiale di regata viene a congratularsi con l’allenatore per i suoi ragazzi. Riccardo aspetta al traguardo ogni suo atleta; e di nuovo c’è un momento esclusivo per ognuno di loro dove pregi ed errori vengono elencati mentre le onde dondolano il lago. È l’ora della terza prova. Riccardo ascolta i ragazzi e poi conferma la tattica. La Breva è birichina, lei gira ancora più a sinistra. I campioncini si accaparrano ancora il Pin. Di nuovo Valerio parte alla grande e di nuovo chiude primo con una distanza abissale dal secondo. La giornata si chiude per riaprirsi Domenica. La Breva va a nanna tardi, ma riposa bene la notte, perché si presenta presto al mattino ed è già signora del luoghi. Tutti in acqua, oggi non si cincischia, ecco il suono dei cinque minuti, poi i quattro, Riccardo si zittisce; è vietato parlare. Un minuto. I ragazzi si schierano, ai venti secondi sono come cavalli imbizzarriti tenuti ai box, ai dieci cazzano e partono solcando le onde di questa bolina matura. Riccardo ha chiamato la partenza in Comitato, ma poi subito a sinistra perché il vento sta dando segnali di rotazione, i ragazzi devono guardare le ochette ed il tono più scuro del blu prima ancora di sentire la prua ruotare. Oggi è la giornata di Gregorio che pare di colpo padrone del campo dopo che stamattina Riccardo, a secco sulla lavagna usando i barchini a calamita, gli ha di nuovo spiegato come reagire alle rotazioni del vento. Chiuderà con due primi. Gregorio e Valerio, A e B, oppure 1 e 2, come li chiamiamo noi. Sempre insieme, fratelli anche nei risultati. La regata se la accaparrerà Gregorio per un punto, dopo un duello al traverso, di quelli all’ultimo sangue e degno di moto g.p., tra Valerio e Henry. Grande Gregorio! Ora lasciatemi raccontare di Giulia, la ballerina dell’acqua. Piazza un secondo dietro a Gregorio, di quelli indimenticabili, così perfetta nei movimenti, così elegante, così bella da guardare. Le chiediamo cosa ha pensato, lei dice: “ho seguito Valerio perché è bravo, ma poi ho visto che andava lungo così ho virato. Ecco l’atleta che pensa e agisce. Riccardino è quarto, silenzioso e preciso. Non posso non raccontare di Rocco, lui gareggia tra i piccoli, con la vela a penna tagliata. È l’ultimo giro di boa, da poppa deve strambare e poi orzare al traverso per l’ultimo stacchetto. Qualcosa va storto e scuffia, sbattendo la testa contro il boma. Richy si allerta, ma lascia all’atleta il tempo di reagire; incredibile, Rocco gira la barca alla velocità di un respiro, riesce a recuperarsi in velocità il cappellino che sta galleggiando e si lancia sull’avversario per riguadagnare la posizione perduta. Poi taglia il traguardo! È la sua prima regata, non sa come reagirà l’allenatore alla scuffia e lo guarda titubante, ma Riccardo è orgoglioso della sua reazione all’errore, e lo festeggia perché ha piazzato un bellissimo quinto posto. Rocco illumina il lago con il suo sorriso solare e rompe la Breva con la sua grassa risata, poi si lancia nel suo racconto della regata, quando di poppa ha superato un suo avversario. A fatica gli controlliamo che la testa sia intatta perché lui è così felice che non si ricorda nemmeno più della bomata che ha appena preso e non riesce a star fermo. Lasciamo la Breva regina per tornare a terra dove una pastasciuttata aspetta tutti gli atleti. Poi, a sera, il lago si lascerà fendere nuovamente dall’ Osa scafo, quando il gommone riporterà barche ed atleti in base a Dervio con un traino che a guardarlo dall’alto sembra un serpente sazio e silente.

L’amore algido

Lui possedeva due tesori; uno era se stesso, l’altro i suoi figli. Era un uomo nato brutto, nulla del suo fisico attirava l’interesse delle donne, se non forse l’altezza. Lei ricordava, molti anni prima quando l’aveva appena conosciuto, il senso di fastidio che l’incontro con lui le aveva procurato proprio a causa di quei lineamenti strani. Era stata la necessità del lavoro a obbligarla a tornare a vedersi con lui, altrimenti mai lei si sarebbe nuovamente avvicinata a quell’uomo. Poi dentro al lavoro lei scopri’ il vero valore di quella creatura alquanto spigolosa. Capì che il corpo fatto a quel modo era solo la protezione umana di un’essenza maschile rara di cui forse nemmeno lui era conscio. La rarità stava nella luce gioiosa con cui lui affrontava la vita; una mente intelligente e malleabile si accostava ad un cuore profondo e aperto; in questo modo lui fronteggiava la sua difficile vita, alquanto più difficile di quella di molti. Ma queste caratteristiche non concludevano quell’uomo raro. Nonostante l’estrema magrezza del corpo, lui era infatti molto più ingombrate, lo era tanto da andare oltre lo spazio fisico; lui entrava direttamente negli strati sottili dell’universo. Un pezzo di lui dimorava infatti alquanto vicino a Dio. Sì lui era un uomo dotato di anima, bella e solare e birichina. Questo era il suo primo e profondo tesoro: un corpo rinsecchito che conteneva un uomo palpabile. Lui si era mostrato a lei così un giorno per caso e da allora lei lo custodiva avvolto dalla loro amicizia dentro al suo cuore. Era un’amicizia lasca che permetteva ad entrambi di assaporare la libertà della propria vita; ognuno dei due con un polpastrello impiantato nell’altro, così di sicurezza, per sapere sempre dove andare quando l’affinità o la fatica chiamava. Proprio quell’amicizia libera le aveva fatto scoprire l’altro suo tesoro. Un numero elevato di figli che lasciava assaporare l’abbondanza della sua vita e che molto contrastava con le sue carni scarne. Lui in questo le era contrario, perché lei invece aveva carni abbondanti ed una vita in alcuni sensi alquanto limitata. Accadeva che si ritrovassero tutti assieme e così lo sguardo di lui si ampliava a ricomprendere il figlio di lei e lo sguardo di lei accarezzava i figli di lui. I suoi maschi erano ancora nell’età dell’accudimento, le femmine invece appartenevano già al mondo che si centra sui dialoghi, per le relazioni, e che ha in sé il seme dell’indipendenza per quel che riguarda se stessi. Dietro agli sguardi reciproci accadevano poi gesti e seguivano parole che legavano i cuori. Sì quella era un’amicizia grande perché dentro ci stava tutto di loro. Lui era paterno con il figlio di lei ed il ragazzino lo guardava con affetto misto ad ammirazione, lei era materna con i figli di lui, dava ai maschi attenzioni di servizio per accertarsi della loro serenità ed incolumità e dava alle ragazze tempo e chiacchiere per avvicinare la sua femminilità matura alla loro nascente e loro le restituivano affetto ed interesse. Il loro era un rapporto rivolto oltre se stessi e capace di accogliere tutto dell’altro. Un giorno lui le disse che aveva una fidanzata, per un poco aveva voluto tenersela per sé, ma ora era tempo che anche lei sapesse. Quando lui smise di raccontare, agli occhi di lei apparve una fidanzata comoda, straniera di nascita e di vita, poco impegnativa e sempre bella come lo sono le fughe d’amore che non impegnano la vita ma saziano i sensi. Lei era felice che nella vita dell’amico vi fossero momenti di pura bellezza senza pensieri, lui se lo meritava. Poi col tempo le parole di lui cambiarono e la fidanzata diventò compagna nella sua bocca; no questa non era più una fuga d’amore era qualcosa di molto più profondo anche se ancora la forma era quella della fuga. Per anni lei seppe della compagna senza però mai avere occasione di incontrarla finché un giorno capitò, come capitano gli appuntamenti non programmati. Lei era curiosa di conoscere la donna che occupava il cuore del suo amico, donna sconosciuta, ma famigliare. Era curiosa perché sentiva un legame verso quella sconosciuta che nasceva dal profondo del rapporto con lui: se per lui era importante lo era anche per lei proprio per via di quell’amicizia aperta che tutto accoglieva. Passarono un fine settimana assieme con tutti i ragazzi; anche la compagna aveva infatti una figlia, così di ragazzini ce ne era a sazietà. In questo modo lei toccò con mano la loro forma d’amore. Era bella quella donna straniera, non oggettivamente bella, ma aveva tratti dolci e uno sguardo ammagliatore; si muoveva lentamente ed era lieve nei sorrisi e nei dialoghi. La parte maschile di lei capì perfettamente perché l’amico si fosse legato a quella donna che chiedeva attenzioni e tenerezza. L’amica però osservò con sorpresa la modalità con cui la compagna chiedeva attenzioni. Lei lo faceva togliendolo dalle situazioni, il suo era un amore esclusivo ed esigente. L’amata amava l’amico di un amore annientatore che si ripiegava su se stesso invece di aprirsi al mondo; un amore incapace di accogliere ciò che va al di là dei propri desideri. Quello era un amore che dietro alla dolcezza nascondeva la pretesa. Incuriosita da questa modalità, l’amica spostò l’attenzione sui ragazzi; guardò come la compagna trattava la figliolanza, ma si accorse che la compagna non trattava affatto la figliolanza, ci stava semplicemente accanto con il suo sorriso dolce, non un gesto verso di loro, non una parola; che differenza con lui che accarezzava la figlia di lei con gesti, parole ed attenzioni con la stessa modalità paterna che aveva verso i propri figli e verso il figlio dell’amica.
Lei pensò che no, non era la forma d’amore che voleva toccare nella sua vita; no non era la forma d’amore che si meritava quel tesoro d’uomo. Poi pensò anche che no non era la forma d’amore che si meritavano quei tesori di figli. Si affaticò molto a vivere l’amore del suo amico perché non risuonava di libertà e lei sapeva se stessa libera e pure il suo amico libero e così educatamente si sottrasse. Sola, nell’intimo della sua casa pensò a quanto lavoro aspettava il suo amico per fare di quell’amore da luna di miele un amore eterno. Sempre sola nell’intimo della sua casa lei aggiunse una categoria alle forme d’amore che conosceva: l’amore algido.

Storie di Orza Minore Scuola di Vela: Una Domenica d’inverno.

Che gioia tornare sul lago. Le acque dormono sotto la calda coperta di neve che copre le brulle cime, mentre gli alberi nudi avvolgono il liquido blu come lenzuola irrigidite dall’amido profumato dei lavaggi a casa di nonna quando eravamo bambini. E’ profumo di sole pallido e velato. E’ profumo d’inverno; delicatissimo e candito; assolutamente fermo; ancora non pronto a trasformarsi nelle spensierate fluttuazioni delle fragranze primaverili. Il clima incornicia questa natura bagnata abbracciandola con il suo freddo non rigido, ma pungente abbastanza da destare i sensi fissi. In questa atmosfera di inverno lacuale Orza Minore si sveglia al nuovo anno. Cinque sono le imbarcazioni che per prime salutano le acque increspate dal vento di nord. Filano tranquille tra le piccole ochette uniche macchie di colore nell’aria monotono. In acqua c’è il corso istruttori che affianca a perizia tecnica perizia didattica per far nascere nuove capacità necessarie per trasferire il sapere. E’ un lavoro intensivo che continua dentro alla precoce notte invernale. Scaldati dal camino della nostra base, i futuri istruttori ascoltano l’orgasmica voce di Lorenzino che sminuzza il gesto del virare e dello strambare in infinite piccole azioni e restituisce un mondo di piacere a chi ha per trasporto il timonare. In barca amore e passione sono infettivi; e’ per tal ragione che gli istruttori si espongono in questo modo al piacere parlato di Lorenzino. Mentre il corso istruttori fa proprio lo spazio tra le due boe gialle con risalite a vele bianche e discese sotto spi, altre tre imbarcazioni si godono il lago addormentato solo per puro divertimento. Oggi e’ giornata di Veleggiata! Non ci sono istruttori e allevi, ci sono equipaggi che solcano il lago per puro riposo, senza obblighi se non l’orario del ristorante sull’altra sponda del lago che tiene pronta polenta e latte per scaldare i naviganti all’attracco. Il piacere di portare la barca e’ affiancato al piacere di scaldare il corpo con un succulento pranzo bagnato da vino e chiacchiere ed e’, anche, affiancato al piacere di essere immersi in questa natura spoglia, ma potente. Torneranno stasera in base, sicuramente rosei per l’aria invernale e per la gioia della giornata spesa tra sport e divertimento. Voi pensate che le attività di Orza Minore siano concluse qua? No, il profumo d’inverno sta accompagnando tre giovani agonisti che ormai troppo cresciuti per il loro bug, sono alle prese coi nuovi laser. In un’altra parte del lago loro stanno affinando le tecniche per non finire nelle gelide acque e per trasformare ogni piccolo gesto in velocità’ . Riccardo l’allenatore e’ in acqua con loro per condividere assieme gioie e dolori, ma noi sappiamo che sono giovani e forti e non sarà certo il freddo di questo Febbraio a fermare il loro entusiasmo e la loro voglia. Sappiamo anche che domani, con le gambe sotto ai banchi di scuola, lasceranno tornare la mente ad oggi per ripassare, mimando coi corpi, i movimenti che stanno divenendo meccanici. Siate indulgenti insegnati, la loro persona sta solo correndo dietro alla passione per la perfezione del gesto. In Orza Minore, infatti, si insegna ad esprimere i propri talenti. Saranno futuri istruttori, semplici amatori o perfetti agonisti.

Il ragazzo e l’uomo

Loro sono due uomini. Uno adulto, cotto a puntino; in quell’età in cui si è sbocciati al’entusiasmo dell’indipendenza, senza avere ancora vissuto abbastanza per sentirne la fatica. Un uomo da “enta”, insomma. L’altro un ragazzetto che non meno di un mese fa si è alzato la mattina urlando a sua madre: “mamma da ieri sono un teenager”, cosa vera! … in un corpo, per dimensioni, adulto. Così la loro la possiamo descrivere come un’amicizia tra un Enta e un Teen. Accadimento raro oggi dove la differenza di età è una barriera divisoria impenetrabile che cade solo intorno ai cinquant’anni. Il giovane uomo, ancora non brizzolato, è un isolano e lo si nota dalla sua parlata che è tonda e ridondante, proprio come si addice ai suoni quando sono abituati a schiantarsi contro un mostro di enormità quale è il mare e che, per non dissolversi, devono tornare indietro sui propri passi e così si caricano ancora di più di se stessi. Ma a differenza della sua parlata, lui è un uomo fatto di corridoi e ponti, aperto alla vita e proiettato verso gli altri esseri umani che accoglie con un profondo sorriso dalla barba rasata. Il ragazzetto, invece, è nato e cresciuto in una metropoli e ha speso la sua giovane vita a metà tra la terra di nessuno, quale è la sua città, e la terra consacrata dall’altra parte del mondo, la terra indiana, ove suole passare parte della sua estate; così lui già sa che un fulmine non è sempre pericoloso allo stesso modo. È un ragazzino madre munito, ma non padre munito in quanto figlio di quel tipo d’uomo che ama alla follia il sangue del suo sangue, ma gli è sempre impossibilitato, per qualche incredibile motivo, spendere la propria vita a fianco della ricchezza in dna nata dai propri spermatozoi. E’ un tipo d’uomo-prodotto di questa era, lo si sta scoprendo, ma ancora non lo si conosce bene per darne una descrizione scientifica; tempo fa comunque non esisteva. Il giovane adulto ed il teenager si sono incontrati sul terreno di una passione comune, anche se par l’adulto stava significando lavoro e per il teenager vacanza un poco stile parcheggio per un grave problema sorto in casa. Qualcosa, durante quella quotidiana frequenza, è scattato tra i due uomini e da sconosciuti si sono trasformati in … famiglia … lo chiamerei. Non posso, da donna, descrivere un sentimento maschile perché non sono in grado di provarlo e pertanto mi è vietato riprodurlo in parole, ma posso descrivere ciò che i miei occhi hanno visto e, tra quei due, hanno visto nascere un’attenzione rara, fatta di disponibilità, presenza, gentilezza, costanza, rispetto; l’adulto verso il ragazzo ed il ragazzo di ritorno all’adulto. E’ come se loro due si fossero notati tra molti e scelti per costruire qualcosa che tocca l’intimo del loro animo, ma che ancora stanno scoprendo. Per questo non mi è venuta altra parola che famiglia, perchè entrambe le relazioni possiedono lo stesso nocciolo fatto di mistero e concretezza. Ed è qui che mi incanta la loro storia; è nel vederli scoprire e costruire quel legame che si è creato per un caso destino che li ha visti entrambi in un luogo ed in un tempo contemporaneamente. Quello tra i due giovani è un legame che li lascia liberi di vivere la propria vita tanto diversa per età, ma che rimarrà una costante nel loro futuro comune di uomini. Come lo so? Perché è un legame che li ha segnati. L’adulto lo dimostra con infinite gentilezze verso il ragazzo. Lui è un adulto che c’è in mille modi nella vita del ragazzino, ed è un esserci fatto di concretezze palpabili. E’ un esserci che si spende nel mondo reale e non nel mondo delle parole o delle intenzioni.
Che meraviglia a guardarlo!
Il ragazzo lo dimostra da ragazzo. Per descrivervi la sua bellissima modalità, do un nome all’adulto, poniamo che si chiami Antonio, anche se questo è più un nome da “anta” che da “enta”, ma gli si addice per i richiami eroici del nome al valoroso condottiero dimenticato per le sue gesta dai suoi discendenti ed osannato per le medesime gesta dai suoi posteri. Orbene quando il ragazzo parla a sua madre del suo amico adulto non lo chiama semplicemente Antonio, ma lo appella sempre dicendo: “il mio Antonio”; quando ciò accade, la madre sa che dentro al quel “mio” non esiste traccia di possesso, ma che tale parola è la culla di ciò che tra loro è nato per quel caso destino che rende belle le vite umane; la madre sa anche che quel “mio”, urlato felice, è il contenitore amorevole di ciò che entrambi vorranno metterci in futuro; è uno spazio vuoto da riempire di vita; così, quando il ragazzo dice “ il mio Antonio”, alla madre sobbalza il cuore di felicità, per quella condizione rara regalata al proprio figlio.
Che meraviglia a guardarli!
So, perché li ho sentiti direttamente, che nessuno più in quella casa chiama l’adulto Antonio, perché per tutti è diventato “Il mio Antonio”. Questa è la famosa proprietà transitiva che esiste tra madri e figli.
Ma, da donna, io so anche che quella madre utilizza tali parole per onorare agli occhi del figlio quell’amicizia nata tra lui, teen, e l’uomo negli enta.
Perché vi ho raccontato questa storia? Perché è una storia normale.

Lui e Lei amici

Erano stati amanti tempo addietro, poi lui era scivolato via dalla vita di lei come usano fare oggi gli uomini moderni. Il loro era stato un rapporto molto poco fisico, ma alquanto virtuale. A lui piaceva intrattenersi con lei attraverso una quantità quasi infinta di messaggi scritti dentro al telefono. Lei per un poco ci si era divertita, ma poi aveva iniziato ad essere insofferente di quel rapporto tutto giocato su frasette, ma totalmente arido di carezze. La situazione si risolse nel giro di qualche mese quando lui divenne muto e con lui il telefono di lei. Lei però si infastidì. Era vero che da donna non stava dentro a quel rapporto pensato, ma non vissuto, però le bruciava lo stesso il fatto di essere stata messa da parte senza nemmeno un: “ciao, è stato bello”. Così lei, un giorno, si mangiò lui con un feroce messaggio. Lui si negò ancora di più e poi ognuno si dimenticò dell’altro permettendo alla propria vita di tornare ad essere il solito susseguirsi di atti conosciuti. Passò un anno o forse due e, per coincidenze della destino, tornarono ad incontrarsi. Questa volta lei se lo mangiò di persona, lui, però, invece di farsi digerire da lei, si impunto e volle chiarirsi. Così a lei toccò smettere di masticarlo, lo dovette sputare e fu forzata a guardarlo in faccia. Avrebbe potuto degluttirselo e digerirselo, ma qualcosa nel comportamento di lui le prese il cuore e fermò il suo fastidio. Per la prima volta in vita loro si parlarono in persona. Forse fu il fatto che oltre ad amarsi, dormirono insieme oppure semplicemente che erano due persone buone ed intelligenti; fatto è che, col tempo, scoprirono di avere attenzione l’uno per l’altra. Piccoli gesti che si ficcavano nei loro cuori e nelle loro menti lasciando un’impronta pesante. Certo, tutto era semplificato perché a nessuno dei due passò per la mente di tornare ad amare l’altro e questo, nel mondo di oggi, rende più facili i rapporti tra sessi. Sì perché il mondo adulto con il cambio di millennio è tornato bambino, circa sui dieci anni, quando ci si fidanza e non ci si guarda né parla più e per tornare a parlarsi e giocare assieme bisogna ufficialmente sfidanzarsi. Loro due si sfidanzarono pronunciando frasi di rito. Lui le disse: “sono senza palle”; lei gli disse: “ti ho sovrascritto”. Da quel momento divennero intimi regalandosi la libertà di parlarsi. L’intimità li rese amici e l’amicizia li portò a volersi bene. Iniziarono ad essere presenti nella vita reciproca, quella reale. Per la prima volta si accarezzarono davvero. Inventarono pure un nuovo gioco; gli altri, guardandoli giocare, dissero: “giocano a uomo e donna”.

A Roberto

Hai preso la mia femminilità ferita dalla chemio, l’hai spogliata e poi baciata. Sei bella hai detto. Un cappello che scivola, un sorriso e un bacio. Così restituisci il mondo maschio alla mia vita. Profumo di uomo!

La regata Pasqualina.

La regata Pasqualina comincia la sera di Pasqua. Prima boa e’ riuscire a finire il porcellino. Sì perché’ al presidente non piace l’agnello allora Donato le cucina il maialino. Mentre il cuoco si prende cura dell’animale, fuori si fa a gara di tiri a baseball con palla da football oppure si centrano i canestri con il frisbi. Poi la cena comincia e il maialino diventa parte di ognuno bagnato dal vino rosso. La serata però non finisce con i dolci, ma divisi in due squadre ad indovinare scarabocchi disegnati sulla lavagna delle lezioni. Sì perché non c’è regata senza compagnia. Poi la mattina dopo alle dieci si fanno gli equipaggi. A me e’ toccato in sorte Roberto e Michele. Ho due pilastri! Roberto e’ l’uomo timone, Michele e’ il tattico e l’uomo spin, io sono la donna tangone e cazza scotte oltre che schiaccia scafo. Il vento e’ tanto e l’onda pure, ma non e’ figlio della termica così non si merita il nome di Breva, e noi non glielo diamo, ma ce lo facciamo comunque amico. La prima prova siamo invelatissimi, ma Roberto non ne sbaglia una aiutato dalle poche parole di Michele. Io devo imparare le mie sequenze. La prima regata passa mentre Roberto diventa un tutt’uno con barca e vento; Michele scrutando gli altri equipaggi diventa il campo di regata spazzato dal vento e solcato dagli altri scafi rossi. Io mi fondo con la maniglia, il tangone e le cime dello spin. Siamo secondi! Nella seconda regata troviamo l’armonia nel silenzio della concentrazione. Primi! La terza regata partenza esemplare, bolina perfetta siamo primi, ma lo spin si incaramella nel senso che diventa una carta di caramella su strallo e fiocco e noi ci impieghiamo tre bordi a disfare quel guaio. Ultimi. Siamo sfiancati, ma la concentrazione rimane. Loro due sono come macchine da guerra, io gli sto dietro al massimo che posso. Si perché, non ve l’ho detto, ma la regata Pasqualina unisce i campioni con i principianti. E’ il modo Orza di onorare il trionfo della vita sulla morte. Siamo di nuovo primi. La regata si chiude tra gli equipaggi che si salutano e congratulano e poi tutti insieme verso il porto. Siamo così stanchi che nessuna imbarcazione issa il fiocco. Si rientra di sola randa. Ormeggiate le barche, fatte le docce, ci ritroviamo per la premiazione e ci sta pure una lezione di tattica fatta sugli errori piu’ grossi acchiappati con l’occhio da Riccardo, l’allenatore dell’agonistica, anche lui al timone di un Orza 6 oggi. Ma l’ultima vera boa della regata Pasqualina e’ la cena con gli avanzi di Pasqua condita dai racconti di tutti e intrisa dalle risa felici di chi oggi ha litigato con quel vento cui nessuno ha dato il nome di Breva. Ora siamo sulla via di casa, con gli occhi e l’anima pieni di questo posto incantato e con il cuore ringiovanito dall’amicizia di un gruppo di persone che oggi si e’ fatta regata.