La dolce Cremona.

Il fascino della “Bassa” è tutto lombardo: nebbie da affettare, umidità equatoriale e odori di campagna abitata che si stampano nel naso appena gli occhi si affacciano sulla pianura irrigua. Chiunque vanta origini Lombarde, antiche o moderne, sa di cosa sto parlando…
Ogni tanto bisogna immergersi in questa terra fangosa, è un ritorno a casa atavico; pochi di noi appartengono veramente a Lei, ma tutti la sentono propria.
Nulla è meglio di una giornata di autunno per andare a farle visita. C’è, in questa stagione colorata, una vena di tristezza nascosta che è sorella della terra bagnata.
Ieri, ho pensato, fosse un giorno perfetto per vivere nomi come Soresina, Pizzighettone e perché no, Cremona. Io persona di riflessi, di leggerezze e di lago, volevo annusare l’odore della terra ferma.
Così con la mia zia mi sono messa in macchina, ma l’autunno ha mancato l’appuntamento con me, un poco come un uomo distratto che dimentica di presentarsi; al suo posto sole e temperature da piena estate, un poco come l’amico di sempre che si presenta per non lasciarti sola avendo annusato l’appuntamento mancato.
Quando viaggi la nebbia ed arrivi in città è presto fatto, ti rinchiudi in una delle sue trattorie e ti asciughi le ossa in un piatto brodoso e caldo; ma che fare a Cremona senza essere prima passati da nebbia ed umidità? Due cose hai a disposizione: guardare la sua cattedrale ed apprezzare il lavoro dei suoi liutai.
Allo scoccare di mezzogiorno, nel cuore dell’edificio razionalista di Carlo Cocchia, un casone tutto simmetria e linearità che oggi ospita il museo dei violini, le linee sinuose dell’auditorium prendono vita e ti abbracciano, dimentiche della rigida simmetria che le contiene, per un viaggio, unico e raro, nel suono di Stradivari.
Da lì, un giro al museo purpureo per ammirare quegli antichi violini ed ascoltarne la voce attraverso il codice a barre è d’obbligo. Se, a questo punto ti è venuta fame, al piano terra, il ristorante, incastrato tra i giochi delle mura in mattone proprio dietro all’uomo delle note, ti rifocilla con un pasto o un aperitivo.
Con la musica nelle orecchie è facile ora affrontare la cattedrale romanica, pesante perché l’anno mille è stato difficile da sostenere anche da queste parti, ma anche leggera, perché dopo il mille è arrivato il mille uno pure qui. Ci sbatti addosso a questa cattedrale che esternamente si mostra articolata in tre chiese con tre distinte piazze, un torrazzo ed un battistero. Tanta roba per una piccola cittadina sulle rive del Po’.
Ma quando guardi questo regalo del passato, devi ricordare che quello che tu vedi e tocchi è prodotto dell’effimero, in realtà non esiste; un miraggio dovuto alle note di Stradivari o alla nebbia mancata. La planimetria ufficiale della città non ne riporta traccia. Al suo posto è indicato il numero 1 arancione: piazza del Comune, ma nulla è detto del Duomo; e sì che al n° 2 arancione è fin segnata la “strada basolata romana”.
Perché non c’è traccia scritta di questo complesso romanico?
Di fronte alla cattedrale c’è effettivamente il palazzo medievale del Comune.
Perché lui sì e lei no?
Sarà mica l’eterna lotta tra Camillo e Peppone?
Io non lo so, ma è stato affascinante toccare con mano ciò che le planimetrie ufficiali ignorano o negano, e sentirlo tradotto nella musica lignea e sinuosa di Stradivari.

New York giorno 2

New York giorno 2
E’ tempo di camminare la città. Voglio far sorgere e tramontare Manhattan proprio come fa il Sole. Partiamo dall’angolo tra l’undicesima avenue e la 34 ovest nelle Hudson Yards. Vedere un grattacielo in costruzione toglie il fiato; vedere un intero quartiere di grattacieli in costruzione, quasi quasi finiti, ma non ancora, blocca il sangue perché pare di essere nell’officina dei Giganti quando al mondo non esistevano uomini.
The Vessel, la scala rossa, alta otto piani e, forse, pensata per il mio amico Teo che sale in montagna correndo, è un Titano nano appoggiato alla piazza per non farti perdere nella tua bassezza. Poi, subito dietro, un grattacielo che sposta se stesso per dare un tetto alla gente assiepata. Lui trasforma la statica in dinamica e crea non poche difficoltà alla mia mente abituata a pensare all’architetture come ad un bene immobile e non certo mobile. Non riesco a staccarmi da questo luogo che porta scritto dentro di se’ il senso mistico del mondo gotico unito alla certezza del mondo romanico.
Lentamente questa piazza che un giorno sarà, ma che per ora non è, scompare. Chissà se il mio amico Teo arrivato su in cima al duemila cinquecentesimo gradino della scala scultura e’ riuscito ad acchiappare e a stringere stretto tra le mani il futuro? Lasciamo la salita agli sportivi, continuando la nostra camminata in questa foresta di ferro che ad un certo punto si trasforma in un bosco verde di vere piante. Il senso da verticale torna orizzontale ed i nostri occhi si abbassano fino a guardare il cemento del pavimento che si apre a contenere la terra che nutre gli alberi, oppure si alza a formare sedute per dare riposo alle gambe stanche. Siamo sulla High Line, l’unica linea di metropolitana al mondo che sui binari porta un giardino fermo invece di un treno che va. E siccome e’ bello guardare i giardini i Newyorkesi stanno ricostruendo ogni singolo edificio che accompagna l’High Line aprendolo a questo bosco orizzontale. Il silenzio, la calma, l’ordine e la pulizia di questo giardino che va, sono esaltati dall’assordante rumore dei mille cantieri che si snocciolano ai suoi due lati. Sono due mondi reali da vivere in contemporanea appoggiando un orecchio all’uno e l’altro all’altro. Al capolinea si scende di nuovo in citta’. Chelsea, l’elegante; il Village, sofisticato; Soho, il laborioso, NoLita, il sudamericano, Little Italy l’affollata commerciale, Chinatown, null’altro che Chinatown; Brooklyn, l’artistica, Williamsburg, la nuova New York….ecco la città che passa davanti ai nostri occhi. Ora e’ quasi buio e ci manca un’ultima cosa da fare dopo aver così a lungo camminato sulla buccia della grande Mela: salire. Per farlo torniamo agli anni della Belle Époque; sì, perché New York e’ anche un porto nel tempo che ti permette i voli pindarici. Mostro a mio figlio cos’era il mondo dell’Art Nuoveau cenando con lui nel Rockefeller Center. Il dolce per noi e’ New York servita di notte dal sessantasettesimo piano.

New York giorno 1

Eccoci finalmente nella Grande Mela; il primo assaggio ha l’odore forte del frutto andato a male sotto al sole d’estate. È un odore che si attacca al caldo, o forse è il caldo che gli si appiccica e lo fa cadere e spiccicare sui marciapiedi, così tu non puoi far altro che camminarci dentro e sperare di sopravvivere. Poi però la notte si porta via tutto compreso la nostra stanchezza ed il nostro fastidio per questa città afosa, appiccicosa, puzzolente, sporca e traboccante di umanità sudata.
Da dove inizio a conoscere quest’isola che ha voluto presentarsi così al mio sguardo stanco? Cerco un bandolo per metterla in chiaro ai miei occhi. Decido di partire dal basso; il sotto mi pare un buon punto per uscire dal buio.
Ground 0 è la prima fermata. Là dove la città è morta in un giorno seppellendo l’occidente sotto al odio fanatico di una religione presuntuosa ora ci sono due vuoti gemelli riempiti d’acqua e racchiusi a quadrato dai tremila nomi spariti. Visitare le fondamenta dei grattacieli abbattuti che ora ospitano il museo della memoria è come tornare a quel giorno in cui ognuno di noi ha respirato il medesimo fumo ed è quasi morto asfissiato. Ma dura poco; perché la città in questo punto è di una bellezza mozzafiato e mostra tutta la sua modernità nel nuovo che non è un rifatto è solo un nuovo. Ovunque alzi gli occhi i grattacieli ti parlano parole uniche, consci di dover dare qualcosa di molto prezioso in cambio del cielo rapito all’ umanità. È saltando di grattacielo in grattacielo che si arriva alla statua della Libertà. La Signora, come la chiamano qui, sta ritta sulla sua isola sbirciando con un occhio la grande mela e con l’altro il mare. Sono anni che non incrocia più gli occhi degli immigranti che ad ogni sguardo le davano un pizzico di gioventù in più, ma lei pare non darsi pensiero perché ora è questa città, un piccolo mondo nel mondo a nutrire la sua giovinezza.
Lei è il primo ponte di questo luogo che ha reso la costa un valore assoluto; filtro di vita, unione di luoghi. Dopo di lei, il ponte di Brooklyn che le siede accanto.
Lo percorriamo in bicicletta masticando felici le nostre cicche quando i miei occhi vengono presi dal tratto di costa appena sotto al ponte. È l’architetto ad essere sollecitato e mi butto a vedere cosa avviene là sotto.
Un lungo giardino a disposizione di tutti, appoggia moli dai volti nuovi nel fiume. Le industrie opulente hanno lasciato le loro fondamenta a parchi, piste, prati, campi da gioco, tavoli e barbecue. Ed è qui che la città per la prima volta ci parla. Sam, di origine araba fidanzato a una donna Domenicana ci invita a cena; ha cucinato spiedini di pesce e verdure. Scendiamo dalle nostre bici e ci godiamo il tramonto che cala sui grattacieli di Manhattan seduti a fianco di sconosciuti che ci hanno mostrato il profondo cuore di questa città ove ognuno è straniero ed indigeno allo stesso tempo.
Torniamo in Time Square incuranti di quanto sia appiccicosa, popolosa e puzzosa la città vicino al nostro albergo perché abbiamo scoperto che questo è solo un episodio dentro al vero valore cosmopolita di questo porto dell’umanità.

Bologna la rossa

Capita il Venerdì di trovarsi a scegliere. Dal cappello, questa volta, e’ sgattaiolata fuori Bologna la rossa. Così un salto sul treno e uhala’ ecco il padrone del b&b che mi omaggia di un Chianti mentre i suoi due piccoli bimbi si appropriano del pavimento sotto di noi. E’ una visita leggera la mia; voglio spizzicare la città non farla mia. Così lascio tutto ciò che pesa ed esco sotto la pioggia. Non prendo l’ombrello perché’ Bologna è la signora dei portici. Io questo già lo so! Camminando mi viene d’istinto l’aprire uno sportello del gas. Da architetto, quando il mio occhio vede qualcosa che non è come dovrebbe, mi incuriosisco; quello sportello era troppo in alto; lo apro per guardarci dentro e non posso credere a ciò che vedo! Dentro c’è Venezia; non un immagine, c’è proprio uno dei suoi canali. Bologna, la rossa, ha una finestra privata su Venezia, l’umida. E lo sportello del gas è il suo teletrasporto. Ma non rimango a lungo a Venezia, una strizzata d’occhio, qualche passo bagnato e sono davanti a Nettuno. La statua è stata voluta dal vice delegato pontificio per onorare il papa quando l’architettura stava lasciando la classicità per passare al manierismo. Il delegato voleva fare bella figura così fece chiamare uno scultore fiammingo che era un omone vichingo. Lui realizzò una statua dalle sue personali proporzioni perché sapeva di essere bello e forte e dotato. Tutto quel bendidio nordico infastidì il delegato che giudicava tale umana dote al di fuori del timor divino e allora fece rifare la statua allo scultore senza compenso quale punizione per avere in abbondanza ciò che a lui mancava. Lo scultore dovette rifare Nettuno e questa volta gli diede dimensioni cattoliche. Ma lui era un’artista e sapeva cogliere i punti di vista ed usarli per dire la sua. Il delegato per un anno intero andò fierissimo della sua statua finche’ un giorno, passandole dietro, alzò gli occhi al cielo per guardare il divino, ma ciò che vide non era la potenza di Dio. Scandalizzato radunò la città e fece l’editto: da allora, ed ancor oggi, le suore sono obbligate ad attraversare tal piazza tenendo lo sguardo fisso sul pavimento. Io l’ho attraversata due volte; una guardando in cielo, l’altra con l’occhio fisso a terra ad onorare le due anime che mi rendono donna. Un’ultima cosa ho voluto fare: andare a guardare un giudizio universale che assieme alle ultime cene ed alle maternità sono i temi a me più cari della pittura antica. Lì ho ammirato Maometto, unico profeta nominato, mandato dritto all’inferno. Ho chiuso questa giornata improvvisata bevendo il mio rosso Chianti nella stanza sotto alla torre degli Asinelli, poi la notte, ma questa e’ una storia privata.

Venezia

Venezia, a volte, scivola sul pavimento di pioggia che ha dimenticato di cadere dall’alto e scompare alla vista mentre piccole gocce bagnate svaporano in coriandoli bianchi le pietre ed i merletti da secoli sponde delle sue acque salmastre. Un silenzio fermo, rigido, grigio e bagnato racchiude i colori delle non lontane stanze satolle di legni dorati e poltrone di stoffa. Quando la nebbia scende ad abbracciare le acque ruba la voce della città e poi, non sazia, trasforma le forme in ombre che i lampioni tingono di bianco o di giallo. Se ti trovi per caso a camminare dentro a quel tripudio scolorito e monotono ove solo la memoria dà un volto alla vita, capisci perché questa è la città delle maschere. Non i colori, non le espressioni, ma solo i contorni restituiscono il senso quando i palazzi chiudono l’uscio per lasciare alla laguna e alla nebbia l’intimità di partorire nuove geometrie alla città. Ma tu sai che nel nulla la vita esiste sui suoi canali e sulle sue fondamenta e sai che il tuo piede sta sfiorando quel manto bagnato che, come un tappeto persiano, copre le calli e allora cammini dentro alla città che non c’è lasciando che la fantasia affianchi il tuo piede a dar forma a ciò che la nebbia di laguna ha portato via con sé e non vuol restituire. E così è carnevale anche se sei a capo dell’anno….

Siena

Qualunque porta tu usi per entrare nella città di Siena sei posto davanti ad un bivio; oltre i limitari ci sono sempre due strade tra cui scegliere, la nostra scelta era tra la Via del Paradiso che sale e la Via della Sapienza che scende. Noi, essendo figlie di Eva ed amando mangiare dagli alberi della conoscenza, abbiamo imboccato la via verso l’inferno con la spensieratezza di chi ha una città da guardare e non altro da fare. È stata un’ottima scelta perché circa a metà del cammino abbiamo trovato l’oggetto del nostro cercare: una dimora incastrata tra scale e muri con un piccolo ponte che saltando la pubblica via finisce in un giardino nascosto, intimamente incastonato tra alte case e muri antichi, e carico di cachi non ancora del tutto maturi. Lì abbiamo sostato riempiendoci gli occhi di tanta città. E sì, Siena ti strega di medioevale. Qualunque sia l’ora! Il nostro sabba è avvenuto la notte, forse perché non siamo del tutto figlie di Eva…. Siena è rossa, buia, ma ogni tanto si incendia di luce e nella luce il medioevo torna a vivere…. Gli edifici della prima banca al mondo che illuminano la loro piazza dell’antica magnificenza, purificando col loro biancore studiato le nefandezze dell’ultima gestione…. La torre che appare dal nulla se solo alzi gli occhi al cielo…. Se poi lasci andar la memoria, riesci a vedere piazza Del Campo che con le piogge diventa un’enorme fontana che si inghiotte le proprie acque riempiendo i vestiti di fango; mentre col tempo clemente è il palcoscenico in discesa delle nove nobili famiglie che la sera, secoli or sono, facevano foggia dei loro abiti camminando su e giù, ognuna chiusa nel proprio spicchio di piazza, ma tutte con la schiena ritta a gareggiar con l’altezza della propria torre che semplicemente stava, là da qualche parte in città. Camminando per le strade curve ogni tanto i palazzi si accendono a giorno e, poiché il guardare è dolce, antichi saggi hanno adornato i muri di tali dimore con panche marmoree. C’è una panca nella città da mozza fiato, è quella di fronte al Duomo, ove, se hai l’onore di sederti lì quando il Duomo la notte si incendia, finisce che ti perdi nella sua luce bianca che brilla ancora più forte quando si sposa al nero da sempre suo compagno di vita. Mentre stai lì seduta a rimirare quel ben di Dio, oppure semplicemente la vita perché c’è, magari ti viene da pensare: “ ma guarda tu che Bischeri son stati ‘sti Senesi a costruir tal meraviglie….” In realtà, tu non lo sai, ma è proprio così, infatti era la famiglia Bischeri che raccoglieva le tasse da destinare alla costruzione degli edifici e tanti ne ha fatti, ma quando si è trattato di finire il Duomo, qualcosa è andato storto nei conti e le cene han superato le tasse così il Duomo è rimasto orfano della navata centrale; ma l’architetto, che prima di fare vede, ebbe un’idea e rese il transetto l’intera chiesa così che noi oggi possiamo sederci e rimirarla la notte. I bischeri, oltre alla loro bischerata, ci hanno lasciato delle splendide architetture ed un luogo a mezzo sacro che oggi, era senza credenze, ospita un gran parcheggio; però, se tu guardi la città di lontano, lo vedi quel chiesone con il suo vuoto e non puoi non pensare che forse i Bischeri l’han fatto apposta!
Noi Lasciamo la notte tutta in fervore per il palio straordinario che riempie le strade. Si è state Ocaiole assieme all’intera contrada in queste ore.

La Certosa di Pavia

Cosa c’e’ di meglio dopo un ozioso aperitivo in piscina se non andare a visitare un monastero? Ebbene l’abbiamo fatto! Lasciato il torpore ovattato di questo luogo azzurro, ci siamo fatti svegliare dal freddo ventoso e soleggiato del fuori e siamo andati. Dovevamo arrivare per le quattordici, perche’ e’ allora che si presenta il fraticello ad aprire il portale di quel luogo gotico dalla pelle rinascimentale e barocca che nasconde segreti. Per prima cosa ci ha portati a trovare Ludovico, il Moro, e sua moglie Beatrice, D’este, tranquillamente sdraiati nel loro sonno eterno sul giaciglio gelato. Stupisce l’altezza di lui rispetto a quella di lei, dolce sposa bambina dai panni velati. L’intera cristianita’ e’ testimone del vostro eterno dormire, dipinta a due dimensioni sulle alte pareti di questa stanza ove il pregare è facile. Lasciata la tomba regale, siamo passati oltre la grata, quella che solo nel dopoguerra è stata aperta a mostrare l’intimo luogo della clausura, là dove i monaci pregavano affinchè amore, pace e benessere scendessero a coprire l’intero mondo pronti per essere colti da ogni singolo uomo. Per farsi sentire meglio, i frati eremiti entravano a mezzanotte nella loro chiesa privata e, proprio nel momento in cui il mondo scivolava nel sonno, innalzavano il loro inno cantato al Dio benevolo. Per due ore la preghiera notturna era ninnata per essere meglio ascoltata. In piedi o in ginocchio, scaldati da una palla di acqua, ornavano come tappezzeria umana i lati lignei del transetto celato ad occhi estranei proprio là dove giace il Sancta Santorum. Le loro litanie ancora si sentono negli intagli del legno e si fa fatica a lasciarle per continuare la visita in altri luoghi di questa Certosa che vigila sulla nostra pianura irrigua. Il fraticello etiope, o forse brasiliano o forse cingalese ci chiede una preghiera per unire la nostra voce a quella degli eremiti di un tempo ed è Padre Nostro; poi tornando al profano ci porta sulla vera tomba di Gian Galeazzo Visconti e sua moglie Caterina che qui giacciono perché loro è stato il primo pensiero avvenuto di questa chiesa poi costruita. Dalla morte torniamo alla vita nel lungo refettorio ove i Certosini consumavano il loro pasto in riverente silenzio ascoltando la Sacra Parola. Una stanza rettangolare, ove nulla disturba lo scorrere delle preghiere da frate a frate. Nemmeno la scala che porta al leggio interrompe il susseguirsi dei seggi dei fraticelli intelligentemente nascosta dietro una porta segreta. Qui si trova un’Ultima Cena contemporanea all’Ultima Cena che ognuno di noi porta nel cuore ed è bello guardarne le differenze: un cane, un gallo, una mano con un sacchetto di monete ed una testa girata, ma soprattutto qui si trovano due piccole maternità di una dolcezza infinita che offrono il loro seno al Gesù Bambino, sopravvissute alla calce bianca che ha oscurato i dipinti affrescati durante la peste nera. L’igiene si è mangiata la divina storia per cercare di salvare l’essere umano; ma quelle due piccole figure rimaste inondano il luogo di amore materno e cancellano il nulla del bianco lasciato dalla peste bubbonica restituiendo alla stanza l’amore nella sua forma più pura. Qui è racchiuso in cinque parole il significato dell’intera bibbia: “ Ama Dio e ama il prossimo”. Tanto facili le prime due parole, impegnative le ultime tre. Con le cinque parole nel cuore lasciamo il refettorio silenzioso e materno. Cento anni ci sono voluti per costruire questa casa di Dio, creata da certosino lavoro. Un intero ventennio impegnato nell’intarsio marmoreo della vita di Cristo e di Maria; poi rubato da mani ladre, ma ritrovato e restituito affinchè ogni uomo potesse ammirare un tale lavoro. Settimo comandamento: non rubare, ci ricorda il fraticello intanto che ci spostiamo verso il luogo quotidiano della clausura. È un grande chiostro quadrato, ornato da leggere colonne marmoree che sostengono puro cotto lombardo dalle sembianze umane. Qui si aprono le porticine delle celle monastiche ognuna con una lettera a richiamare i nomi dei monaci che giravano a ruota nell’alfabeto in modo da lasciar vivere un nome per lettera. Le celle sono piccole certose in miniatura che si stagliano nel cielo azzurro. In esse si svolgeva l’intera vita retta dalla monastica regola che recita prega, lavora, medita, studia e fai silenzio. Un piano terra per pregare, meditare e studiare, un primo piano per riposare, una cantina non so per cosa, ed un chiostro privato e chiuso con un piccolo porticato anch’esso sorretto da colonnine marmoree per lavorare e fare silenzio. Qui si svolgeva la loro vita quando la comunità in clausura non era riunita presso l’eucarestia o al refettorio; altro non c’era nella scelta eremita. Non pensavo di ritrovare nella scelta eremita l’origine della casa a schiera! Il fraticello sta dondolando un chiave d’oro e intona un’Ave Maria e un Eterno Riposo per vivi e morti e poi ci dice che ora la scelta è nostra se vogliamo abbracciare la vita retta dalle cinque regole basta ritirare la chiave da lui; altrimenti ci aspetta all’uscita per restituirci al mondo pulsante di azioni e voci nascosto dietro questi muri silenti. Scegliamo di uscire portandoci nel cuore la voglia di meditazione, silenzio, studio e pace. Se anche voi volete vedere e capire alla Certosa di Pavia dovete andare assicurandovi di essere lì all’orario di apertura per poter incontrare il fraticello e scoprire i segreti di questo bellissimo luogo. Non dimenticate di indossare pesanti scarpe perché i pavimenti marmorei ricordano la nuda terra ghiacciata dei nostri avi.

Roma caput mundi o forse solo capoccia 2

Roma caput mundi o forse solo capoccia, ma sempre e comunque eterna.
Ci siamo svegliati e la fame era tanta, abbiamo scelto un bar, in realtà l’unico aperto alle nove di mattina, e ci siamo entrati. La cameriera, Sara, cantava. Si e’ interrotta, ci ha chiesto le ordinazioni ed ha ripreso a cantare dietro alla radio. Caffè e tintarella di luna, brioches e guarda come dondolo, succo di frutta e trottolino amoroso dududu dadada. Ci siamo messi a cantare anche noi …. era troppo travolgente. Le ho chiesto: “ perché canti?”. Mi ha risposto: “perché questa musica e’ l’orgoglio d’Italia assieme alla Carbonara e alla Matriciana.” E’ la prima volta nella vita che respiro spirito patriottico, ma mai me lo sarei aspettato a ritmo di un twist . Di Sara conosco che non ha lasciato Roma , nemmeno per una vacanza, ma per lavoro parla quattro lingue.
Dovete sapere che commercianti, venditori di biglietti e centurioni, qui a Roma, sono un esercito multietnico e laureato in lingue se non addirittura madrelingua. Mai vista miglior imitazione ( per la parte capoccia) e miglior integrazione ( per la parte caput mundi ).
Dopo colazione ho avuto bisogno di un taxi per portarmi in Vaticano. Lui arriva, ci carica e che fa? Prima ci porta su al Giannicolo! Signora non si preoccupi del taximetro scenda e guardi. Io sono scesa e ho guardato. Avevo Roma ai miei piedi. Che spettacolo mozza fiato! Lui ci ha raccontato degli edifici che via via passavano ai nostri occhi tra cui la residenza dell’ambasciatore spagnolo. Io, allora, gli ho raccontato del mio incontro il giorno prima con Palazzo Farnese, splendido esempio di rinascimento, a me carissimo, e del fatto che ora sia la sede dell’ ambasciata di Francia, cosa che non so perché mi aveva infastidito molto. E lui: “ e pensi che la Francia paga un affitto simbolico di un euro all’anno. Lo occupano da almeno duecento anni.” “ Oh povera Italia”, dico io, “ma come fai a stare in piedi!” Ora, devo confessarvi, i Francesi mi stanno ancora più antipatici; ma siamo arrivati in Vaticano, non prima di aver percorso totalmente il suo periplo. Costo della corsa? Dieci euro e quaranta, ma lui me ne chiede solo nove. Ci salutiamo e con me oltre alla sua simpatia, gentilezza ed a ciò che ho visto fuori programma, rimane una massima: lui ha detto: “ Roma e’ da percorrere a piedi perché’ tra un monumento e l’altro c’è la città fatta di infiniti bellissimi scorci” . Ed ha ragione. Vi assicuro, Roma e’ veramente uno scorcio mozza fiato dietro l’altro, dove non e’ raro incontrare persone interessanti.
Tra tutti gli abitanti di Roma, un gruppo spicca in tanta bellezza: le persone in divisa. Vigili urbani e uscieri la popolano come formichine. Hanno anche delle speciali casine ottagonali agli angoli delle strade dove rinchiudersi e separarsi dagli altri. Si spostano a sciami, normalmente misti tra i due tipi e sono sempre presissimi a parlare tra loro; credo siano affari di stato. Se per caso ne incontri uno da solo, stai pur certo che sta parlando al Vhf. Poi ci sono le altre categorie in divisa, ma non occupano Roma come queste due, semplicemente ci stanno senza farsi troppo notare per questioni di lavoro.
Degli altri romani non so, forse sono tutti al mare, la città e’ in mano ai turisti per ora.

Roma caput mundi o forse solo capoccia 1

Roma caput mundi o forse solo capoccia, ma sempre e comunque eterna.
Potrei raccontarvi dell’appartamento prenotato da mesi con cura, amore e attenzione, ma sfasciato dai precedenti clienti e non disponibile al mio arrivo. Potrei raccontarvi di sessanta euro piazzatemi in mano per un taxi che mi portasse chissà dove in una città sconosciuta. Potrei raccontarvi del taxista che aspettava i clienti scesi per pranzare (… solo a Roma si lascia un taxi ad aspettarti mangiare…), ma che mi prenota lui in persona un secondo taxi, dato che non mi può portare là chissà dove. Potrei raccontarvi del secondo taxista che si trasforma in divertentissimo cicerone…ora in Roma io so pure identificare dove sono nati i suoi figli, al pari del luogo che ha scaldato Dante tanti anni fa. Potrei raccontarvi che qui io sono straniera dato che nessuno mi rivolge la parola nella mia lingua natale.
Ma io vi racconto del mio grande amore; li’ avrei voluto sposarmi ed ora sicuramente vorrei esser sepolta.
Il Phanteon!
Per erigerlo dovevi essere fornito di dodici Dei e un Imperatore altrimenti era vietato, ma loro li avevano dodici dei ed avevano pure l’imperatore, così lo costruirono senza pensarci su tanto. Una sfera divina e bucata, inserita in un cerchio perfetto, che solo Giotto poi e’ stato in grado di riprodurre. Però, se lo vedi da fuori, tutto questo non esiste. Li’ c’e’ solo un cilindro in mattoni; ma non ti confondere tu che guardi: dentro nasconde calcestruzzo non armato, il primo della storia, mischiato a strati sempre piu’ leggeri di materiale colloborante. Poi c’e’ un pronao a otto immense colonne di marmo dagli imponenti capitelli corinzi che sorreggono un tettuccio di legno timido timido che non sa mica tanto il perche’ sta li’!
Poi ci sei tu, piccolo essere umano a tempo che comprendi perfettamente il povero tetto.
Il Phanteon e’ imponente, ma non ti fa sentir piccolo. Pare leggero, ma ti fa provare tutto il peso della storia. E’ un equilibrio di forze statiche che rimbalzano contro la tua vulnerabilità dinamica. E’ radicato al suolo ed insieme aperto al cielo in un continuum che mostra a chiunque lo viva le proprie infinite interruzioni. E’ un luogo compiuto e non riesci a non toccarlo. Così l’ho toccato e mi sono compiuta pur io esattamente come il timido tetto lassu’. Allora ho avuto bisogno di luce bianca e sono andata a sedermi alla fontana di Trevi, ma il tetto, tranquilli, e’ rimasto dov’era. Qui Oceano mi ha accolto tra cavallo agitato e cavallo placido per festeggiare con lui l’acquedotto di Roma magistra. Cosi’ la sferica perfezione di masse di calcestruzzo antico ha ceduto un poco di spazio alle zampillanti forme barocche e ritorte di una fontana bianca che non si accontenta di stare al suo posto e per conseguenza a sentirsi eterna e capoccia e’ stata la mia persona.
Poi mi e’ venuta fame ed allora ho cenato a cicoria assieme a Botero.

San Pietroburgo 11

Stanotte tornata a Milano mi son chiesta se fossi riuscita a descrivere San Pietroburgo in una frase e m’e’ venuta: San Pietroburgo e’ una citta’ a misura di Zar, e gli Zar non avevano misura….