La Certosa di Pavia

Cosa c’e’ di meglio dopo un ozioso aperitivo in piscina se non andare a visitare un monastero? Ebbene l’abbiamo fatto! Lasciato il torpore ovattato di questo luogo azzurro, ci siamo fatti svegliare dal freddo ventoso e soleggiato del fuori e siamo andati. Dovevamo arrivare per le quattordici, perche’ e’ allora che si presenta il fraticello ad aprire il portale di quel luogo gotico dalla pelle rinascimentale e barocca che nasconde segreti. Per prima cosa ci ha portati a trovare Ludovico, il Moro, e sua moglie Beatrice, D’este, tranquillamente sdraiati nel loro sonno eterno sul giaciglio gelato. Stupisce l’altezza di lui rispetto a quella di lei, dolce sposa bambina dai panni velati. L’intera cristianita’ e’ testimone del vostro eterno dormire, dipinta a due dimensioni sulle alte pareti di questa stanza ove il pregare è facile. Lasciata la tomba regale, siamo passati oltre la grata, quella che solo nel dopoguerra è stata aperta a mostrare l’intimo luogo della clausura, là dove i monaci pregavano affinchè amore, pace e benessere scendessero a coprire l’intero mondo pronti per essere colti da ogni singolo uomo. Per farsi sentire meglio, i frati eremiti entravano a mezzanotte nella loro chiesa privata e, proprio nel momento in cui il mondo scivolava nel sonno, innalzavano il loro inno cantato al Dio benevolo. Per due ore la preghiera notturna era ninnata per essere meglio ascoltata. In piedi o in ginocchio, scaldati da una palla di acqua, ornavano come tappezzeria umana i lati lignei del transetto celato ad occhi estranei proprio là dove giace il Sancta Santorum. Le loro litanie ancora si sentono negli intagli del legno e si fa fatica a lasciarle per continuare la visita in altri luoghi di questa Certosa che vigila sulla nostra pianura irrigua. Il fraticello etiope, o forse brasiliano o forse cingalese ci chiede una preghiera per unire la nostra voce a quella degli eremiti di un tempo ed è Padre Nostro; poi tornando al profano ci porta sulla vera tomba di Gian Galeazzo Visconti e sua moglie Caterina che qui giacciono perché loro è stato il primo pensiero avvenuto di questa chiesa poi costruita. Dalla morte torniamo alla vita nel lungo refettorio ove i Certosini consumavano il loro pasto in riverente silenzio ascoltando la Sacra Parola. Una stanza rettangolare, ove nulla disturba lo scorrere delle preghiere da frate a frate. Nemmeno la scala che porta al leggio interrompe il susseguirsi dei seggi dei fraticelli intelligentemente nascosta dietro una porta segreta. Qui si trova un’Ultima Cena contemporanea all’Ultima Cena che ognuno di noi porta nel cuore ed è bello guardarne le differenze: un cane, un gallo, una mano con un sacchetto di monete ed una testa girata, ma soprattutto qui si trovano due piccole maternità di una dolcezza infinita che offrono il loro seno al Gesù Bambino, sopravvissute alla calce bianca che ha oscurato i dipinti affrescati durante la peste nera. L’igiene si è mangiata la divina storia per cercare di salvare l’essere umano; ma quelle due piccole figure rimaste inondano il luogo di amore materno e cancellano il nulla del bianco lasciato dalla peste bubbonica restituiendo alla stanza l’amore nella sua forma più pura. Qui è racchiuso in cinque parole il significato dell’intera bibbia: “ Ama Dio e ama il prossimo”. Tanto facili le prime due parole, impegnative le ultime tre. Con le cinque parole nel cuore lasciamo il refettorio silenzioso e materno. Cento anni ci sono voluti per costruire questa casa di Dio, creata da certosino lavoro. Un intero ventennio impegnato nell’intarsio marmoreo della vita di Cristo e di Maria; poi rubato da mani ladre, ma ritrovato e restituito affinchè ogni uomo potesse ammirare un tale lavoro. Settimo comandamento: non rubare, ci ricorda il fraticello intanto che ci spostiamo verso il luogo quotidiano della clausura. È un grande chiostro quadrato, ornato da leggere colonne marmoree che sostengono puro cotto lombardo dalle sembianze umane. Qui si aprono le porticine delle celle monastiche ognuna con una lettera a richiamare i nomi dei monaci che giravano a ruota nell’alfabeto in modo da lasciar vivere un nome per lettera. Le celle sono piccole certose in miniatura che si stagliano nel cielo azzurro. In esse si svolgeva l’intera vita retta dalla monastica regola che recita prega, lavora, medita, studia e fai silenzio. Un piano terra per pregare, meditare e studiare, un primo piano per riposare, una cantina non so per cosa, ed un chiostro privato e chiuso con un piccolo porticato anch’esso sorretto da colonnine marmoree per lavorare e fare silenzio. Qui si svolgeva la loro vita quando la comunità in clausura non era riunita presso l’eucarestia o al refettorio; altro non c’era nella scelta eremita. Non pensavo di ritrovare nella scelta eremita l’origine della casa a schiera! Il fraticello sta dondolando un chiave d’oro e intona un’Ave Maria e un Eterno Riposo per vivi e morti e poi ci dice che ora la scelta è nostra se vogliamo abbracciare la vita retta dalle cinque regole basta ritirare la chiave da lui; altrimenti ci aspetta all’uscita per restituirci al mondo pulsante di azioni e voci nascosto dietro questi muri silenti. Scegliamo di uscire portandoci nel cuore la voglia di meditazione, silenzio, studio e pace. Se anche voi volete vedere e capire alla Certosa di Pavia dovete andare assicurandovi di essere lì all’orario di apertura per poter incontrare il fraticello e scoprire i segreti di questo bellissimo luogo. Non dimenticate di indossare pesanti scarpe perché i pavimenti marmorei ricordano la nuda terra ghiacciata dei nostri avi.