L’approdo

Era una giornata piatta, di quelle che il sole non c’è; e tutto è una sfumatura di grigio. Il grigio toglie al mondo la dimensione della profondità per questo che le giornate poi sono piatte. Lei aveva portato il suo vestito bianco, quello con il corpino stretto, la sottana lunga dietro alle caviglie e il cappellino con la visiera di pizzo a bere un latte macchiato al Pontile, da dove ogni tanto partono e arrivano i traghetti. Ovviamente appoggiato alla sedia non mancava l’ombrellino bianco della stessa stoffa del vestito e con lo stesso pizzo del capellino, quello con il manico in midollino che lei non lasciava mai; così anche oggi era lì, chiuso testimone della mancanza di sole. Mentre sorseggiava il suo latte macchiato decise di scrivere una missiva all’amico lontano, obbligato a letto da una brutta ferita alla gamba. Era tanto tempo che non scriveva all’amico così si concentrò in modo particolare sulla grafia, non voleva che l’amico allettato avesse difficoltà a leggere la sua missiva; voleva che lui vivesse con sollievo e non con fatica il tempo della lettera. La sua attenzione era tutta presa dalle parole che si formavano sul foglio bianco, ma quando si fermava a pensare agli argomenti da raccontare e alzava la testa, non riusciva a non distrarsi con la vista di quel pezzo di lago che in quel punto si chiude per poi riaprirsi un poco, poco più su. Lei guardava l’acqua ferma dalla mancanza di vento e si sentiva addosso il piatto del grigio. Era come essere lei stessa in una cartolina e così la figurò con sé seduta al caffè ricurva mentre scriveva attenta a non sbavare l’inchiostro. Era come essere lì e poi essere lì di nuovo. Che rara sensazione! Pensò che forse poteva scrivere le sue sensazioni all’amico lontano, ma poi ritenne che non si addiceva ad una donna del suo rango parlare di cose così intime ad un uomo, poi le venne pure in mente che non fosse poi tanto normale pensare i suoi pensieri … in fondo al millenovecentosessantotto mancavano ancora un centinaio di anni … allora si scosse da quei pensieri in cerca di normalità e la trovò nel traghetto che lento e suonate attraccava alle scope di ferro. Ci salgo o non ci salgo? Guardò tutte le persone in attesa della partenza con le loro bombette, i loro cappellini, gli strascichi non lunghi e non corti, gli ombrellini ed i bastoni di teste muniti. No io rimango in questo paesaggio da cartolina a sentirmi piatta e rotonda contemporaneamente. Abbassò la testa e tornò a concentrarsi sulla sua missiva incarnando nei segni del pennino il mondo fuori e dentro di lei. Scelse di salire nel pomeriggio sulla barca a vela filante che l’aspettava nel porto di Santa Cecilia. Fermo sul molo ad accoglierla c’era l’equipaggio al completo, formato da quattro giovani marinai in maglietta a strisce blu e bianche che si impettì un poco di più al suo passaggio. Quando salì sulla barca, aiutata dal movimento garbato del capitano, posò una mano sul cappellino, mentre con l’altra si tenne stretta all’ombrellino. Si godette quel viaggio piegato, portata dal vento che ora increspava l’acqua e restituiva al mondo la sua profondità nel totale silenzio della natura e dell’artefizio.

L’anima del pianoforte

Lei adorava quelle mani; ormai da lustri viveva per loro. Si erano incontrati anni prima, quando quelle dieci piccole dita l’avevano accarezzata per gioco. Là in fondo nel tempo, esperta com’era di mani, lei aveva capito che quelle dieci ditina sarebbero, un giorno, diventate capaci di dialogare tra loro, creando frasi mai prima ascoltate. Così l’anima del vecchio pianoforte aveva donato a quelle manine il suo suono migliore; giusto per vedere cosa avrebbero fatto. E le manine risposero toccando le sue corde, rapite da quel nuovo mondo di suoni. Le dieci dita crebbero adulte su quei tasti esperti fino a diventare nodose. Insieme divennero leggenda. Poi un giorno ci fu il silenzio. I’anima del pianoforte aspettò e poi ancora aspettò, ma quelle mani rugose non l’accarezzarono più.
Possibile che le amate dita se ne fossero andate dimenticandola? Sì, era possibile! L’uomo dalle mani nodose aveva smarrito il suo pianoforte … o forse, aveva smarrito se stesso!
L’anima del pianoforte si zittì. Semplicemente perse la sua voce.
Fu in quel’attimo che iniziò il suo cammino solitario. Venne, assieme al pianoforte, spedita nei luoghi più remoti della terra per essere suonata dai migliori pianisti del mondo; ma nessuna mano cavava più alcuna frase da quel legno dotato. Divenne un affare mondiale riuscir a far di nuovo parlare il pianoforte smarrito e muto.
Mani spagnole lo toccarono per regalargli il fuoco flamenco, ma nulla.
Mani inglesi giocarono con lui come la pioggia leggera gioca a bagnare i soprabiti, ma nulla.
Mani russe lo gelarono con toni puri e poi lo scaldarono con toni dai colori sgargianti, ma nulla. Mani giapponesi gli regalarono fiori di loto, ma nulla.
Mani americane lo portarono in parata al ritmo di uno swing, ma nulla.
Mani tibetane lo elevarono al suono delle loro campane, ma nulla.
Ormai erano centinaia le dita che in tutto il mondo avevano cercato di far tornare all’anima del pianoforte la voglia di suono … ma nulla.
Il pianoforte venne allora riportato a casa.
La porta fu lasciata aperta in modo che chiunque ne avesse desiderio, potesse poggiare le sue mani su quei tasti zitti.
Molti si sedettero al piano per raccontargli all’orecchio la propria storia. Era bello! Ognuno raccontava di sé a quei tasti e loro ascoltavano muovendosi nel silenzio. Non un suono, di quello che le dita dicevano, mai usciva da lì. Il pianoforte imparò molte cose del genere umano; felicità, tristezza, disincanto, amore, rabbia, tranquillità, gioia, ansia, spensieratezza. Lui esprimeva tutto attraverso il silenzio della propria anima. Grande era la potenza maestosa e rigeneratrice di quel suono muto. Le persone, toccandolo, appresero che il silenzio aveva profondità e leggerezza. Ognuno si alzava da quel seggiolino grande pianista perché era per tutti suonare un piano senza voce. E sentirsi grande faceva bene! Un giorno, poi, al calare del sole, un uomo vecchio si sedette al pianoforte. Prima disse qualcosa alle corde; poi poggiò le mani sulla tastiera. Il pianoforte riconobbe quel tocco all’istante e appena le dita rugose iniziarono a muoversi, la stanza, la casa, la via furono inondate di suoni. Assieme, uomo e strumento, dettero voce a tutto quanto era, per anni, stato espresso in silenzio. Il pianoforte, attraverso le dita nodose, liberò i segreti che tanti esseri umani gli avevano confidato consegnando i propri talenti ai suoi tasti atoni. Il pianoforte esprimeva e l’uomo eseguiva. Fu sinfonia.
La terra, a quel suono, smise per un attimo di girare e si fermò ad ascoltare quel concerto di umanità.
Nessuno mai seppe cosa il vecchio disse al suo pianoforte dopo un così lungo tempo di assenza e prima di tornare a suonare. Ma, si dice in giro che gli abbia sussurrato: “Ti avevo smarrito, mi permetti di ritrovarti?” Pare che, come risposta, l’anima del pianoforte gli saltò in braccio e lo strinse stretto stretto senza mai più lasciarlo.

Telefonata

La giovane donna era impegnata in una telefonata di lavoro. Il suo collega, dall’altro capo del cellulare, aveva trascinato la conversazione in noiose giustificazioni per cercare di ottenere da lei un autorizzazione che non poteva essere data. Come era solito fare, lui la stava letteralmente investendo di parole; lei normalmente lo ascoltava e partecipava al dialogo perché, oltre il puro passaggio delle necessarie informazioni c’era per lei anche il piacere di ascoltare una voce monotona e cadenzata che aveva la capacità di rilassarla. C’era nascosto nel dialogo di lavoro il puro piacere umano di correre dietro a una voce conosciuta. Ma non questa volta! La conversazione era diventata un monologo perché lei era scivolata via. Mentre lui elencava mille difficoltà, il pensiero di lei era rimbalzato contro un decolté che il giorno prima aveva catturato il suo sguardo e che ora tornava imponente ai suoi sensi. Di colpo quelle rotondità in parte nascoste allo sguardo dentro ad un reggiseno mal celato erano venute a riempirla di sensazioni. Lei era tornata ad accarezzarle con gli occhi, come aveva fatto il giorno prima; ma dietro agli occhi, forse cullata dalla monotonia di lui, si era acceso forte il desiderio di bello e lei aveva preso ad accarezzare quel seno con tutto il suo corpo. Il bello è anche una sensazione tattile e non si può goderne senza toccare. Non era un seno grande, ma il corpo ossuto lo rendeva estremamente rotondo agli occhi e florido alle mani. Stava appoggiato al reggiseno come un braccio teso oltre il balcone che cerca di afferrare un albicocca dall’alberello che per la prima volta ha reso feconda la propria fertilità. Quel seno era uguale, tutto proteso in fuori a cercare occhi con cui fare l’amore. Gli occhi di lei avevano risposto al richiamo ed ora, nascosta in quella conversazione, si stava lasciando sedurre da quelle forme morbide ed esigenti. Si ritrovò ad accarezzare con le labbra le vene rosee che lo segnavano in superficie come una mano che contiene un mondo rotondo e che non lo concede. Lei chiese di poter entrare nel piacere che solo un corpo femminile sa nutrire. Ci entrò e si saziò di quelle forme che si concedevano inarcandosi e diventando più grandi. Bevve di loro poggiando le sue labbra su quei capezzoli che parevano piccole giuggiole rosse appena spuntate. Si appagò sentendosi addosso quei seni che si muovevano portati dal respiro di un corpo non voluto. La sensazione di bello era così vivida che il suo stesso corpo reagì come era abituato a reagire al tocco delle mani di un uomo. Lei si perse in un orgasmo mentale e fisico che l’aveva spinta in un mondo lontano, da dove era difficile tornare perché significava doversi ricomporre, irrigidirsi e vestirsi. Rimase là, libera e nuda, a sentire la bellezza del suo corpo che rispondeva al tocco di quel seno gonfio di piacere contraendosi ed espandendosi oltre ogni confine. Perse il controllo della respirazione, delle parole, non c’era più nulla se non le sue reazioni ed era bello. Tutto era immensamente bello e pieno. Ogni singola sensazione nata e provata le diceva che lei era donna, profondamente donna.
Lui continuava nel suo monologo, a darle ragioni e spiegazioni per portarla là dove avrebbe voluto. Oh ignaro contenitore sonoro di un orgasmo di donna, lui parlava, ma lei non c’era più.

Colazione

Questa mattina stavo tranquillamente facendo colazione con il mio lungo caffè bollente quando mi trovai in bicicletta lanciata giù per un pendio mozzafiato; ancora spaventata per la discesa venni proiettata in un salto nel cielo che ai miei sensi durò alcuni anni. Il mio stomaco si capovolse e credo che anch’ io mi girai con lui, poi finalmente toccai di nuovo, con le ruote, il terreno, ma durò poco perché ancora volando mi vidi. Ero finita, senza saperlo, sul casco di un ciclista un poco fuori di senno. Soffro di vertigini, fammi scendere, gli urlai, ma il suo momento era tale che non mi ascoltò e mi fece saltare con lui finchè tutta quella forza non si esaurì. Quando atterrammo e ci fermammo, fu tutto un movimento di mani e di dita che felici esaltavano la nostra impresa. Io scesi dal casco e guardai il mio caffè; era ancora bollente e tranquillo nella tazza blu scuro che reggevo in mano. Lo sorseggiai ascoltando scendere fin giù nello stomaco quel liquido profumato e caldo. Ma qualcosa di nuovo attirò la mia attenzione; erano urla di gatto. Pareva che qualcuno lo stesse uccidendo. Vidi davanti a me una fitta vegetazione e due mani cercare freneticamente. I miei occhi si appiccicarono a quelle mani. Spostammo l’ultima foglia e lì era il gatto mezzo mangiato da un pitone che tutto lo arrotolava. Le mani faticarono ad aprire quel corpo rettile, ma l’animale non era così forte da vincere e così, senza sapere perché, si ritrovò, arrotolato, su un braccio scuro senza più il suo pasto tra i denti. Il gatto, riacquistato il suo corpo, schizzò via come una scheggia sparata. A me, invece, ci volle qualche secondo per capire che intorno non avevo la foresta pluviale, ma un tavolo bianco, due sedie rosse e quattro verdi. Quando i miei occhi tornarono al loro posto, vidi di nuovo la mia tazza blu scuro con il caffè fumante nel cuore. Finalmente riuscii a vuotarla ed iniziare la mia giornata lavorativa. Ma le sorprese non erano ancora finite. Rimasi di stucco quando capii che il mio intero corpo si era inoltrato in due occhi blu, intenso mare, con un tocco di cielo, ingrigito al contorno, e lì si era perso.
Decisi di non andarmi a cercare. E lasciai al mio corpo la libertà di parlare:
“Credo che oggi rimarrò nei tuoi occhi se me lo permetti; voglio sedermici dentro e guardare il mondo da qui, nella pace della bellezza che ti appartiene. Lascia che io mi versi un altro lungo caffè bollente e goda di te.”
Così il mio corpo oggi siede pacifico in quegli occhi blu intenso mare, con un tocco di cielo, ingrigito al contorno, intanto che il resto di me vive e lavora.

L’autostrada fantasma

Questa è la storia di un autostrada fantasma. Non c’è, ma c’è!
Ora che non ci sia è un dato certo: ne parlano tutti, ma nessun la fa.
Qualcuno ogni tanto può uscirsene con un: “eppur io l’ho fatta”, ma non fidatevi troppo; forse sognava. Se, infatti, gli chiederete dove l’ha presa e dove l’ha lasciata lui darà risposte alquanto vaghe.
Questa autostrada, se davvero esiste, avrebbe un inizio vago e una fine annebbiata. Con caratteristiche così non può che essere un’autostrada fantasma, un poco come un veliero! Che ne pensate?
Oggi, però, avevo poco da fare, così in macchina ho voluto sperimentare. Ho chiuso gli occhi col desiderio dell’autostrada fantasma; “chissà che questa sia la via per far in modo che sia?” Pensavo.
Poi riaprii gli occhi e lei era lì. Bella, grande, completamente libera!
Non potendo credere a ciò che vedevo; ho chiesto aiuto alla fedele tecnologia. Solo per capire se ero desta oppure sognavo, ho rivolto lo sguardo al navigatore. Lui deciso mi ha detto che tra i campi io stavo correndo. Allora ho guardato un poco più su, ma l’autostrada sul vetro era appiccicata come una caramella Mù.
Mannaggia sogno!
Di colpo però una voce assordante mi riporta al reale: “ hai superato il limite di velocità”; poi ancora più forte: “ hai superato il limite di velocità” e ancora e ancora….
Giuro, non lo sapevo che i campi avessero un limite di velocità!
…. Meno male che stavo percorrendo la strada fantasma attraversando un campo reale e non il contrario!…

A mio figlio

Era Ottobre quando sei nato; io ti ho alzato, di poche ore, ai venti ed ho chiesto all’Est illuminazione, al Sud coraggio, all’Ovest riconoscenza, al Nord creativita’. Volevo che tu crescessi nell’abbondanza di noi, ma non e’ stato. Tu sei uno di molti per cui va bene uguale. Sei cresciuto nei contrari e hai imparato per contrappunto. La completezza e’ nata dalla frammentazione, l’unione dalla separazione, l’amore dal disincanto, l’abbondanza e’ venuta dall’assenza. Non cosi doveva essere, ti era dovuta una fanciullezza sazia e completa e protetta; ti e’ stata invece consegnata carta copiativa per trasformare, tu bambino, questo mondo di adulti irrisolti nella tua maturita’. E tu lo hai fatto; hai eseguito il tuo compito come solo un figlio innamorato dei suoi genitori sa fare. Io sono cosi’ fiera di te.