Le mille carezze dell’infinito

Quanti infiniti ci sono?

Dipende da te!

Uno, nessuno, centomila …

Tanti quanti sono i tuoi pensieri.

Tu quanti pensieri hai?

Io ne ho alcuni.

 

Perché sei così interessata all’infinito?

Perché non mi basto, ma mi basto;

Allora penso che l’infinito mi si addica addosso.

Però mi piace cambiare;

così, di infiniti ne ho alcuni confezionati.

 

Se vuoi ti apro il mio guardaroba così li puoi vedere.

Sì, dai, ho tempo oggi.

 

C’è un primo infinito appeso nel mio guardaroba, non so dirvi perché ma quest’infinito e’ un mantello di nappa marrone che mi tiene calda le notti d’inverno.

E’ un infinito che in principio permeava nel nulla. Non era. Però aveva una tal voglia di vita da riuscire a formulare il primo pensiero di sé. Il desiderio di conoscersi era talmente immenso che un giorno pronunciò una virgola ed il nulla, nel quale si trovava, si riempì del suo primo soffio. Ma essere vento non gli bastava e così pronunciò la sua seconda lettera che urtando il soffio si incendiò di luce immensa ed accecante. L’infinito si illuminò per la prima volta ed allora disse: “Chi sono io?”. Ma come poteva saperlo senza alcun alterego che gli restituisse la propria immagine? Lui si vedeva desiderio, pensiero e soffio, ma era tutto indistinto. La stessa virgola che produsse il soffio lo punse nel mezzo e l’infinito sobbalzando si divise in due: parte sopra alla virgola e parte sotto alla virgola. Questo fu il suo primo passo, un movimento dentro a se stesso. Dopo essersi mosso, all’infinito venne ancora più desiderio di sapere chi fosse. La luce era però troppo accecante così l’infinito si girò su se stesso creando un poco di ombra. Guardando di nuovo, vide la sua parte rimasta sotto alla virgola.“Che cosa è quello?” urlò non poco spaventato. E’ così che l’infinito per la prima volta rilevò l’alterità, l’altro da sé che poi chiamò spazio vuoto e che poi riempì di creato perché il nulla separato ancora non gli restituiva alcun’immagine di sé. La parte di sopra alla virgola, invece, l’infinito mai la distinse da sé, ed infatti rimase a tutti, infinito compreso, inconoscibile.

Così il creato nel quale il mio guardaroba è posizionato altro non è che il trucco dell’infinito per gabbare il nulla e potersi conoscere. Io quando indosso il mantello di nappa marrone riposto nel mio guardaroba mi sento lo specchio dell’infinito ed alla domanda chi sono rispondo; “io sono l’essere che desidera essere”.

 

C’è poi un infinito maturo e conscio di sé che adoro e metto spesso quando l’appena nato infinito vuol riposare. Quest’ infinito datato è formato dall’illimitatezza miscelata al limite.

È un vestito regale formato di molti veli; in ognuno di essi vi è l’amata limitata illimitatezza.

Il primo velo, infinito, procede sempre avanti nel più e sempre avanti nel meno a formare parte dell’essenza della mia sottoveste. C’e’ poi la cucitura, il limite, l’immobile, che porta l’in-finito ad essere della mia taglia cucendogli addosso forma e dimensione grazie a una serie di punti crociati che lo de-limita nella mia sottoveste.

Ecco che addosso alla mia pelle ho un illimitato de-finito nato da un in-definito indeterminato perché il limite, la cucitura, ha dato una Forma alla stoffa declinando il suo essere.

Tale Forma è eterna e mi sopravivverà. È anche assoluta perché unisex.

Vi è poi un secondo velo, atto a sostenere la veste ed attaccato alla cucitura della sottoveste. E’uno scrupoloso lavoro ad uncinetto ove i punti son posti in relazione l’uno con l’altro a formare un pizzo di figure geometriche tridimensionali, canoni nati da proporzioni armoniche che uniscono il velo esterno alla sottoveste. I numeri sono un’infinità composta da unicità; così anche nel secondo velo vi è un infinito de-finito capace di dare sostanza all’essere del mio vestito.

Su tale pizzo si adagia l’ultimo velo della mia veste; quello che non solo io vedo.

Questa fattura mi rende facile indossare la veste perché mi risulta anallergica.

Il velo esterno è di puro cotone rosso.

Qui l’infinito si mostra nella sua magnificenza.

Perché è in questo strato superficiale della mia veste che l’infinito deve scendere a patti col tempo e col luogo.

Quest’ultimo velo l’ha creato un genio di pittore che è riuscito a dipingere sul cotone rosso tutti i petali dell’infinito.

Per farlo ha dovuto cadenzare, attraverso il colore, l’eternità mettendola nel divenire del tempo.

Ha poi dovuto inventare uno spazio capace di contenere tutti quei fiori che per nascere e poi appassire hanno bisogno, oltre al tempo, anche di un luogo. Un luogo incorrotto per poter reggere il peso dell’infinito, un ricettacolo fatto di cera capace di sprofondare sotto ogni impronta senza mai sposarsi con essa, materia amorfa fatta di acqua, aria, terra e fuoco mischiati assieme indistintamente.

Uno strato informe di puro cotone rosso ove il pittore ha estratto i petali ordinando e proporzionando con le sue pennellate.

Ha spinto l’acqua all’acqua, il fuoco al fuoco, la terra alla terra e l’aria all’aria così da formare magnifici fiori dai colori sgargianti e permettere a me di indossare il più bell’abito fatto di infinito fiorato mai disegnato da migliore stilista.

 

C’è in ultimo un infinito a forma di cappello, un vecchio cilindro grigio. Di lui so poco perché non lo ho ancora scoperto, allora lui sta lì, appeso nel mio guardaroba, in attesa che io un giorno gli dia un valore cacciandomelo sulla testa ed uscendo di casa con lui.