Il fazzoletto in borsetta

Frugando nella borsetta cercava il fazzoletto di cotone. Trovato, lo estrasse tirandolo da un angolo e le pieghe della stoffa si disposero a mostrarle la R ricamata a blu sul fondo azzurro. Il fazzoletto le riportò alla mente gli asciugamani che da anni giacevano intonsi, nelle loro confezioni trasparenti, sul ripiano del suo armadio anch’essi con le R all’insù. È allora che lei decise. “Voglio sposare un uomo che inizi con la R”. Lo pensò continuando a guardare il fazzoletto, ma con negli occhi gli asciugamani che giacevano là sul ripiano dal giorno dopo il matrimonio, quando lei, sposina, ve li aveva riposti come contrassegno della radiosa quotidianità che si sarebbe concretizzata da lì all’eternità. Il cotone antico, la spugna pregiata ed i ricami non li rendevano adatti all’uso quotidiano, ma erano perfetta rappresentazione del gesto sacro che ognuno di loro aveva donato all’altro. Nella mente di lei anche il set di pentole azzurre, che provenivano dall’Inghilterra e che teneva nell’armadio della sala, erano la rappresentazione della nuova vita sacra, ma essendo pentole comuni, un giorno, decise di usarle ed esse così passarono allo scaffale della cucina ed oggi erano ancora lì logorate dall’uso quotidiano. Insieme alle pentole negli anni si logorò anche il matrimonio fino a sciogliersi; il tempo passò e così gli asciugamani vennero dimenticati, mentre le pentole, senza più alcun significato, continuarono ad essere usate.
All’improvviso, quel giorno, mettendo le mani in borsetta, sentì l’esigenza di dare un senso a quegli asciugamani. Decise di recuperare ciò che impregnava le salviette dimenticate anni prima. Le venne voglia di sporcare il futuro di passato. Il suo, non certo il loro. Ecco il pensiero di tornare alla R. Voleva un legame con quel punto tanto potente da entrare negli asciugamani. Voleva solo questo. Il resto non era più necessario.
È incredibile cosa le donne a volte trovino nello loro borsette.
Nella sua aveva rincontrato il senso di loro, un sentimento oggi scremato da qualsiasi riferimento umano, ma ancorato nel suo corpo tanto da pungere ancora molte delle sue scelte.
Non so se è una cosa di specie o solo una sua caratteristica, fatto è che questa urgenza era là intatta nella sua borsa e ora era finita nuovamente tra le sue dita.
Lei la estrasse, senza un apparente motivo.
Non conosceva nessun uomo il cui nome iniziasse con la R. No, non era vero, in realtà ne conosceva parecchi, ma nessuno era da R stampata su fazzoletti ed asciugamani, nessuno le ispirava un senso plurale; pensandoci nessuno le ispirava nulla.
“Questa sì che è un’incrinatura della mia vita” pensò.
Così, nel tempo di una mano in borsetta optò per la tabula rasa, fece pulizia scopando via tutti gli uomini che le avevano occupato il pensiero in quel tempo; o forse più che occupato sarebbe opportuno dire: “erroneamente asservito”.
Strinse la R nelle mani e si soffiò il naso.
È così che lei smise di dare il fianco alle storie da poco; a quegli uomini che chiedevano, ma nulla volevano dare, o peggio a quegli uomini che manco chiedevano; alle loro parole piccole e alle loro situazioni ordinarie.
Voleva la R sugli asciugamani.
È così che si placò.
Aveva avuto modo di rigirarsela tra le mani a lungo la R in quegli anni, ormai ne conosceva ogni singolo punto cucito. Non desiderava più fare incontri piccoli, lei la R l’aveva in borsetta, se le fosse capitato di incontrarla di nuovo nel mondo, l’avrebbe sicuramente riconosciuta e quindi sposata. Altro non esisteva.
Si risoffiò il naso e andò a far compere.

L’amore algido

Lui possedeva due tesori; uno era se stesso, l’altro i suoi figli. Era un uomo nato brutto, nulla del suo fisico attirava l’interesse delle donne, se non forse l’altezza. Lei ricordava, molti anni prima quando l’aveva appena conosciuto, il senso di fastidio che l’incontro con lui le aveva procurato proprio a causa di quei lineamenti strani. Era stata la necessità del lavoro a obbligarla a tornare a vedersi con lui, altrimenti mai lei si sarebbe nuovamente avvicinata a quell’uomo. Poi dentro al lavoro lei scopri’ il vero valore di quella creatura alquanto spigolosa. Capì che il corpo fatto a quel modo era solo la protezione umana di un’essenza maschile rara di cui forse nemmeno lui era conscio. La rarità stava nella luce gioiosa con cui lui affrontava la vita; una mente intelligente e malleabile si accostava ad un cuore profondo e aperto; in questo modo lui fronteggiava la sua difficile vita, alquanto più difficile di quella di molti. Ma queste caratteristiche non concludevano quell’uomo raro. Nonostante l’estrema magrezza del corpo, lui era infatti molto più ingombrate, lo era tanto da andare oltre lo spazio fisico; lui entrava direttamente negli strati sottili dell’universo. Un pezzo di lui dimorava infatti alquanto vicino a Dio. Sì lui era un uomo dotato di anima, bella e solare e birichina. Questo era il suo primo e profondo tesoro: un corpo rinsecchito che conteneva un uomo palpabile. Lui si era mostrato a lei così un giorno per caso e da allora lei lo custodiva avvolto dalla loro amicizia dentro al suo cuore. Era un’amicizia lasca che permetteva ad entrambi di assaporare la libertà della propria vita; ognuno dei due con un polpastrello impiantato nell’altro, così di sicurezza, per sapere sempre dove andare quando l’affinità o la fatica chiamava. Proprio quell’amicizia libera le aveva fatto scoprire l’altro suo tesoro. Un numero elevato di figli che lasciava assaporare l’abbondanza della sua vita e che molto contrastava con le sue carni scarne. Lui in questo le era contrario, perché lei invece aveva carni abbondanti ed una vita in alcuni sensi alquanto limitata. Accadeva che si ritrovassero tutti assieme e così lo sguardo di lui si ampliava a ricomprendere il figlio di lei e lo sguardo di lei accarezzava i figli di lui. I suoi maschi erano ancora nell’età dell’accudimento, le femmine invece appartenevano già al mondo che si centra sui dialoghi, per le relazioni, e che ha in sé il seme dell’indipendenza per quel che riguarda se stessi. Dietro agli sguardi reciproci accadevano poi gesti e seguivano parole che legavano i cuori. Sì quella era un’amicizia grande perché dentro ci stava tutto di loro. Lui era paterno con il figlio di lei ed il ragazzino lo guardava con affetto misto ad ammirazione, lei era materna con i figli di lui, dava ai maschi attenzioni di servizio per accertarsi della loro serenità ed incolumità e dava alle ragazze tempo e chiacchiere per avvicinare la sua femminilità matura alla loro nascente e loro le restituivano affetto ed interesse. Il loro era un rapporto rivolto oltre se stessi e capace di accogliere tutto dell’altro. Un giorno lui le disse che aveva una fidanzata, per un poco aveva voluto tenersela per sé, ma ora era tempo che anche lei sapesse. Quando lui smise di raccontare, agli occhi di lei apparve una fidanzata comoda, straniera di nascita e di vita, poco impegnativa e sempre bella come lo sono le fughe d’amore che non impegnano la vita ma saziano i sensi. Lei era felice che nella vita dell’amico vi fossero momenti di pura bellezza senza pensieri, lui se lo meritava. Poi col tempo le parole di lui cambiarono e la fidanzata diventò compagna nella sua bocca; no questa non era più una fuga d’amore era qualcosa di molto più profondo anche se ancora la forma era quella della fuga. Per anni lei seppe della compagna senza però mai avere occasione di incontrarla finché un giorno capitò, come capitano gli appuntamenti non programmati. Lei era curiosa di conoscere la donna che occupava il cuore del suo amico, donna sconosciuta, ma famigliare. Era curiosa perché sentiva un legame verso quella sconosciuta che nasceva dal profondo del rapporto con lui: se per lui era importante lo era anche per lei proprio per via di quell’amicizia aperta che tutto accoglieva. Passarono un fine settimana assieme con tutti i ragazzi; anche la compagna aveva infatti una figlia, così di ragazzini ce ne era a sazietà. In questo modo lei toccò con mano la loro forma d’amore. Era bella quella donna straniera, non oggettivamente bella, ma aveva tratti dolci e uno sguardo ammagliatore; si muoveva lentamente ed era lieve nei sorrisi e nei dialoghi. La parte maschile di lei capì perfettamente perché l’amico si fosse legato a quella donna che chiedeva attenzioni e tenerezza. L’amica però osservò con sorpresa la modalità con cui la compagna chiedeva attenzioni. Lei lo faceva togliendolo dalle situazioni, il suo era un amore esclusivo ed esigente. L’amata amava l’amico di un amore annientatore che si ripiegava su se stesso invece di aprirsi al mondo; un amore incapace di accogliere ciò che va al di là dei propri desideri. Quello era un amore che dietro alla dolcezza nascondeva la pretesa. Incuriosita da questa modalità, l’amica spostò l’attenzione sui ragazzi; guardò come la compagna trattava la figliolanza, ma si accorse che la compagna non trattava affatto la figliolanza, ci stava semplicemente accanto con il suo sorriso dolce, non un gesto verso di loro, non una parola; che differenza con lui che accarezzava la figlia di lei con gesti, parole ed attenzioni con la stessa modalità paterna che aveva verso i propri figli e verso il figlio dell’amica.
Lei pensò che no, non era la forma d’amore che voleva toccare nella sua vita; no non era la forma d’amore che si meritava quel tesoro d’uomo. Poi pensò anche che no non era la forma d’amore che si meritavano quei tesori di figli. Si affaticò molto a vivere l’amore del suo amico perché non risuonava di libertà e lei sapeva se stessa libera e pure il suo amico libero e così educatamente si sottrasse. Sola, nell’intimo della sua casa pensò a quanto lavoro aspettava il suo amico per fare di quell’amore da luna di miele un amore eterno. Sempre sola nell’intimo della sua casa lei aggiunse una categoria alle forme d’amore che conosceva: l’amore algido.

Il libro

Se lo girava tra le mani con movimenti a metà tra il riverente e l’urgente, come quando si sa di avere un tesoro tra le dita che potrebbe rompersi in un istante. A palmi aperti accarezzava con i polpastrelli la figura dipinta in copertina attardandosi un poco sulle lettere che componevano il titolo poiché provava un piacere tattile nell’accarezzare un tale spessore di parole umane. Mise il libro in verticale e passò i pollici su e giù sulle pagine ingiallite dal tempo sentendo il solletico della cultura. Le sue dita stavano sostenendo tutto il pensiero umano raccontato in una storia. Lei provava meraviglia. Era arrivato per posta; un libro già usato, carico delle emozioni di chi in precedenza lo aveva posseduto. Così la donna aveva comprato non solo la storia della filosofia, ma anche la vita di chi con lei aveva passato la notte. Aprendolo a caso, si accorse di poter leggere accanto alle parole stampate quelle appuntate da sconosciuti che, prima di lei, avevano amato lo scorrere del pensiero narrato. Una firma in blu che il tempo aveva spostato verso il porpora; Eugenio. Di Eugenio ora lei sapeva che era nato nel 1972 e che per un certo periodo della sua vita aveva amato i riccioli sulle “i” e l’ Etica di Spinoza. Un amore leggero, tremulo, che quasi ha paura ad appuntarsi i concetti perchè non suoi. Sicuramente un amore obbligato e poi velocemente dimenticato. A lei faceva molto strano una firma così abbondante in confronto alla secchezza delle linee si sottolineatura e alla leggerezza delle parentesi laterali tracciate; e poi gli asterichi, tutti quegli asterischi a fianco dei capitoletti, quasi a dire: ” fatto” ” studiato” “andato”. Sì forse Eugenio aveva anche perso tempo in quel libro. Certo è che dentro a quel libro c’erano tutti i filosofi, c’era l’autore e c’erano i lettori passati. Ora lei poteva far sua tanta abbondanza di menti e parole. Il libro proveniva dal passato, quasi remoto, ma era arrivato nelle sue mani attraverso la più recente tecnologia, passando dal presente quasi futuro. Tale pensiero accresceva in lei l’entusiasmo per questo oggetto che possedeva dentro di sé il risultato ottenuto dal massimo sforzo delle menti di molti. Si abbandonò a lui, immergendosi nelle parole che la portarono in epoche estranee per restituirle concetti familiari, raccontati nel tempo che scorre. Dimentica del mondo esterno lei entrò nelle lettere delle parole, fin dentro al loro scheletro, e le fece ballare poi sulla propria musica fino a che la notte divenne chiara e nuove idee le nacquero in testa. Allora chiuse il libro soddisfatta e, paga, si addormentò. Sognò l’amore per le parole. Sognò il linguaggio, suo amante, con il quale giocava giochi proibiti. Sognò il tomo che le aveva portato in dono il frutto della passione nutrita dai sapienti del passato. Poi semplicemente sognò.

Il Vallecetta

Lei aveva la montagna nei piedi, le si era incastrata nelle dita molti anni fa quando era poco più che bambina. Per anni, d’inverno, quando la coltre di neve copriva prati e rocce, ogni singolo punto di quell’universo bianco aveva lasciato il suo gusto dentro ai movimenti di lei, così oggi quando le capitava di parlare di quei luoghi in realtà lei poteva solo raccontare di quell’ incredibile intesa che muri e dossi avevano creato con il suo corpo. Lei era in grado di sciare ovunque, ma in nessun luogo provava quel senso di appartenenza che sentiva scendendo da queste piste. Aveva provato a passeggiare nei medesimi luoghi in estate, ma la montagna le era molto più estranea. Solo in inverno si incastrava in quel modo con i suoi piedi. Così, oltre al piacere di sciare qui c’era anche l’amore per il luogo. Un amore dato dalla profonda conoscenza che nasce, a sua volta, dalla lunghissima frequentazione. Il suo era un amore familiare; non l’aveva scelto, ci si era trovata dentro e in esso era cresciuta. Quando fu tempo che suo figlio mettesse gli sci ai piedi, lei lo portò a conoscere la montagna. Gliela presentò come i suoi piedi la conoscevano. Non era venire giù elegantemente da un muro, era godere nel scendere dal muro del tremila, proprio quello li’ che chiedeva sì capacità tecnica per non ammazzarsi, ma soprattutto apertura mentale per giocare, poi, con i due larghi dossi che, a fondo discesa, potevano farti volare o fermare. Non era solo scegliere se correre giù lungo l’asperità della Sant’Ambrogio a capofitto o preferire il panettone sorgente della Praimont; era anche sapere in anticipo, solo guardando neve e montagna, quando il panettone sarebbe stato più una pietraia che una pista. Non era solo godersi la parte finale nel bosco della Bimbi al Sole, ma sapere quali curve stringere per far si che fosse la montagna a spingerti lungo l’altopiano invece di dover racchettare e sudare da te. Non era solo scegliere gli Ermellini per evitare i lastroni rapati della Stella Alpina; era anche scegliere le sue morbide forme per il gusto di rendere perfette le curve senza esasperare il lavoro di gambe. Oppure scegliere l’Isabella proprio per intensificare il loro movimento ed affinare il gesto tecnico usando le sue incalzanti cunette. Il bimbo cresceva imitando la madre curva dopo curva, poi anticipando la madre curva dopo curva. Un giorno lui si staccò da lei dicendole ti aspetto giù. Lei lo guardò scendere e capì che la montagna ora era anche dentro ai piedi del figlio. Lo capì perché nei suoi movimenti c’era molto di più che l’armonia del gesto tecnico; c’era disponibilità ad ascoltare la montagna e ad assecondarla per trovare insieme un più profondo piacere. Da quel giorno, la madre seppe che i due si sarebbero frequenti anche da soli. Oggi lei, ferma per una convalescenza, guardava dal basso il ragazzetto scendere le piste con la montagna nei piedi, la perizia negli arti ed un profondo sorriso negli occhi nato da quel connubio perfetto.

Il muscolo

Fare il muscolo non e’ cosa difficile. Sei conscio dei cicli di veglia e sonno che per te, però, sono categorie ontologiche tipo l’essere o ‘l non essere shakesperiano. Non ti preoccupi di lavorare perché, non sai come, ma gli zuccheri arrivano comunque , così passi il tuo tempo contratto o rilassato senza poi neanche sapere bene perché. E’ una meravigliosa vita di routine.
Erano, per l’esattezza, cinquant’anni che tu, pettorale, esistevi ad intermittenza e in questo, non corto, periodo qualche certezza l’avevi, pur tu, conquistata: vita e scopo sono sempre coincisi. Esistevi affinché io mi muovessi. Per te, senza necessità di contrarti e produrre un movimento, non sarebbe mai esistita esistenza. Non l’avevi a considerazione logica, dato che non sei dotato di cervello; era, più che altro, una certezza mnemonica nata dall’ inprinting che il movimento ha scritto nelle tue cellule, che loro, sì, hanno invece un cervello o per lo meno ricordi. Orbene, un giorno uno stadio di profonda immobilità ti ha colto, poi, al tuo risveglio qualcosa era cambiato. Non eri più là dove sei sempre stato. Scombussolato ti sei contratto, come al tuo solito, ma nessun movimento e’ accaduto perché là dove tu ora eri non era richiesto alcun moto. Sconvolto, hai chiesto aiuto alle tue celluline, ma loro invece di urlarti: “muoviti, muoviti” ti gridavano: “sii ciccia ferma ed abbondante”. E’ così che hai appreso che eri stato degradato da pettorale a ciccia da seno con buona pace delle certezze acquisite in cinquant’anni di vita. Sappi, però, che avere un seno con un passato da muscolo e’ un gran vantaggio perché sei duro e sodo che e’ un piacere guardare l’imprevista fissità. A me però piaceva la molliccia sodezza del tuo predecessore così ti chiedo di ammorbidirti e iniziare, nella tua fissità, a ballare quel poco che basta a lasciarmi pavoneggiare tra gli uomini per la riconquistata morbida tonicità. Chissà mai che, per orgoglio, l’altro seno non voglia copiarti!

Il padre e il figlio

Era nato bellissimo, un piccolo bambino perfetto. Venuto al mondo talmente veloce che la fatica del parto non aveva lasciato traccia sul suo corpicino indifeso. Biondo e roseo si era subito addormentato tranquillo, avvolto nei lenzuolini del piccolo letto su ruote. I suoi occhi si erano chiusi e le labbra rilassate mentre lui aspettava dormendo che il mondo si aggiustasse quel poco necessario a regalargli uno spazio dentro al suo pulsare. Le braccia materne, a poche ore dalla sua nascita, lo avevano poi alzato al cielo; quattro volte, una per direzione. Era stato alzato, neonato, per essere presentato al creato; era stato alzato, figlio, per ringraziamento del dono di vita arrivato insperato; era stato alzato, creatura, per chiedere una vita felice e prospera; era stato alzato, anima, per essere unito all’universo stellato. Poi era stato abbassato, abbracciato e baciato per indicargli il suo luogo d’amore nel mondo, sua madre. Anche braccia più forti lo avevano tenuto stretto, erano quelle dell’uomo che con la sua nascita era divenuto papà. Le labbra del piccolo avevano imparato a sorridere e, probabilmente, gli era piaciuto molto copiare quella smorfia dai volti adulti perché da allora non avevano mai più smesso. Cresceva felice, ricciolo e solare, protetto dagli occhi amorevoli di quella madre che abbracciava il mondo e lo trasformava per renderlo a misura dei suoi due occhietti svegli che chiedevano vita. Il creato si lasciava toccare quando lo incrociava perché lui era un bimbo dolce e vispo e curioso e bello oltre il normale e, così, ovunque mettesse i suoi piccoli piedi contaminava i luoghi d’amore, come fanno i papaveri quando coi loro calici colorano a rosso il mondo senza che la terra lo voglia. Così lui cresceva molto amato. Ma, un giorno, il padre decise che quel luogo d’amore con al centro i due occhietti vispi non era più abbastanza per la propria felicità e prese la direzione di un’altra vita. Non fu facile per la madre spiegare a quel piccolo volto sorridente che tutto chiedeva alla vita perchè le due braccia più forti al mondo non sarebbero più state lì a proteggerlo e a rendere i giorni a sua misura. Il mondo immutabile fatto d’amore si frantumò agli occhi del bimbo che, a soli cinque anni, dovette imparare a vivere sapendo che altro riempiva le giornate del suo papà; ma quel piccolo bimbo non chiuse il suo cuore alle scelte del padre. Lui continuò ad amarlo, per lui era sempre il suo super papà. Gli anni passarono, ed il padre approfondì i solchi di quella vita parallela che solo ogni tanto si piegava ad accogliere il proprio figlio. Un giorno di fine Gennaio arrivò una sorellina. Quando la piccola stava per nascere il bimbo, ormai ragazzino, disse a sua madre che non era una vera sorella, ma una mezza sorella. La madre ancora una volta abbracciò il mondo prima di restituirlo a suo figlio e gli domandò: “Tu sarai in grado di darle solo mezzo amore?” Il ragazzino rispose che non sapeva come tagliare l’amore a metà, così la madre gli disse: “Allora lei sarà un’intera sorella perché intero sarà l’amore che saprai donarle”. Il primo compleanno della piccola cadde di giovedì, unico giorno della settimana in cui la vita del ragazzino tornava a toccare la vita del padre. Il padre però disse a suo figlio che quel giovedì non lo avrebbero passato assieme perché lui doveva andare dalla sorella e festeggiare il suo compleanno. Il giovedì il ragazzino chiese alla madre se il padre quando era piccolo usasse passare i compleanni assieme a lui. La madre ebbe un sussulto e gli chiese se fosse proprio necessario rispondere a quella domanda. Il ragazzino però pretendeva una risposta e la madre dovette decidere tra verità o falsità. L’amore materno non voleva ferire il cuore del ragazzino già troppe volte amputato; ma quello stesso amore non voleva raccontargli bugie. Lasciò che le parole uscissero da lei senza pensarle e si ascoltò parlare: “No amore non c’è stato un tuo compleanno al quale papà abbia voluto essere presente. Nemmeno il caso lo fece mai capitare.” Questa volta la madre non riuscì ad abbracciare il mondo prima di restituirlo a suo figlio forse perché era troppo stanca e provata. Vide davanti ai suoi occhi il sorriso sul bellissimo viso del figlio spegnersi, la testa abbassarsi e le spalle stringersi nel dolore già molte volte combattuto. Guardandolo lei non riuscì a non pensare alla sua sorellina che si stava scaldando d’amore nelle forti braccia del padre mentre il fratello perdeva il sorriso. Uscì, là dove anni prima aveva alzato il proprio figlio al cielo, ma questa volta le braccia si irrigidirono contro i fianchi e i pugni si chiusero stretti in un perché urlato dritto al creato. Le mute lacrime del suo cuore bagnarono la notte stellata mentre il figlio nel letto combatteva l’ennesimo fortissimo mal di testa che il bacio di mamma ormai non riusciva più a far passare. Lei chiuse gli occhi regalando alla notte l’immagine del sorriso bambino scomparso dal volto del figlio; pregò le stelle di riportarglielo in sogno.

San Gallo

Era la regina di San Gallo indietro indietro nella sua infanzia, non la principessa che è cosa da bambine belline, lei ne era il re al femminile. Ancora la donna ricorda le corse spensierate su al Dosso del Grillo per accompagnare passo a passo la calata mattutina del sole verso la sua collina. È così che assicurava la luce al popolo sbarbato, scortandola in regale processione, un passo lasciato nelle tenebre e l’altro fatto nel giorno appena spuntato. E le piaceva accompagnare quella linea in movimento perché era come stare a cavalcioni del creato. Si sentiva libera, lei sola all’alba nel mondo vuoto, metà buio e metà illuminato. A quei tempi i suoi genitori erano ancora padroni della sua capigliatura che infatti era corta, tagliata per essere e non certo per apparire, ma il mondo racchiuso in quella valle, là dove i condannati passavano l’ultima notte di vita, apparteneva solo a lei e alla sua spensieratezza con la quale creava avventure per la comunità bambina che passava l’estate tra la collina ed il boschetto. Ogni elemento della natura si trasformava ai suoi occhi in occasione. E così trascinava la masnada di ragazzini a combattere le guerre della fantasia tra le trincee della collina per arrivare a sera saturi di schermaglie e paci con le guance rosee di vita. Oppure trasformava le cime degli alberi in comodi letti ove il suo popolo bambino potesse riposare nascosto agli occhi e ai pensieri dei genitori. Oppure ancora rendeva i grandi massi casse del supermercato ed i fili d’erba monete affinchè la sua parte femmina potesse divertirsi. Le spedizioni all’Adda, terra vietata, erano poi una prova richiesta a quel popolo bambino, così come le incursioni al cimitero per resistere, soli, alla vista delle fiammelle e poi tornare vincenti e cresciuti dagli altri. Tre gradini lei aveva per trono ai piedi della collina; lì decideva le sorti della giornata e lì chiudeva le serate d’estate; prima ad arrivare, ultima ad andare. Sì era il suo mondo e di null’altro aveva bisogno perché quello era un universo di meraviglie per i suoi occhi ancora bambini. Poi crebbe.

La donna ed il Tempo

Lei lo aveva sedotto senza volerlo. Un giorno, chiacchierando amabilmente, lui si accorse che nelle parole di lei mancava ciò che sempre c’era in quelle degli altri. Si innamorò perdutamente di questa assenza e da allora vivono fianco a fianco come sposi. Lei non si accorse subito di questo matrimonio, lo scoprì un giorno quando si rese conto che i suoi occhi sapevano vedere oltre. Dapprima si sentì potente, oltreumana, ma poi capì che era solo un regalo di colui che da anni viveva con lei, divenuto, così, suo unico sposo. Lei andò da lui e gli chiese: “Tempo perché mi hai sposata?” e lui le rispose: “Perché, tra tutti, tu non hai mai avuto paura di me. Sei venuta da me portata dai tuoi vivaci occhi marroni che molto chiedevano, ma nulla temevano ed io ho deciso di rimanere al fianco di quell’unica piccola creatura che voleva sapere senza temere. Mi sono fermato con te per respirare la tua libertà e per vedere dove mi avrebbe portato. Sai, millenni di paure e di lagne su come evitare la morte oppure vincerla mi hanno reciso l’anima e fatto schiavo della vostra umanità. Ho voluto sposare colei che non considera “la vita una scialuppa cui aggrapparsi durante un naufragio” per dirla con parole umane.” Lei tacque perché scoprire di essere spostata al Tempo e contemporaneamente rendersi conto di quale libertà riempiva la sua vita, fu un trauma. Sì, lei dovette venire a patti con questo matrimonio scomodo che le aveva dato in sposo non la carne, ma l’eterno; colui che per padre ha il Cielo e per madre la Terra; colui che generò sei figli e li mangiò tutti, eccetto uno che divenne Dio dell’Olimpo dopo aver battuto suo padre facendogli anche vomitare i figli dapprima mangiati. Ma non si scompose per queste notizie perché lei di lui accarezzava il sublime ed il terribile. Per questo non era scappata una volta conosciuto e gli aveva permesso di diventare il suo sposo. Fece molta più fatica con la seconda parte della scoperta; prendere coscienza dell’infinita propria libertà era scioccante perché la paura è un porto sicuro cui riparare e rendersi conto di non avere paure durante le tempeste della vita può al momento far cedere le ginocchia. Lei sussultò solo per un istante perché poi tornò a godere della grande calma legata alla sicurezza incastrata nella gioia che la libertà le dava. Il tempo le disse: “Vedi è questo che intendo, tu mi sei compagna perché non sai cosa sia il limite. Sei mia pari; unica in millenni. Per questo come suggello di nozze ho voluto regalarti ciò che agli umani è di solito celato. Ti ho donato la capacità di vedere negli altri ciò che è già stato.” Lei allora rispose al Tempo: “Grazie, mio diletto, anch’io voglio farti un dono, ti regalo ogni istante che fermo e dilato nel tuo continuo scorrere per assaporare la felicità umana e non dimenticarla; ti regalo l’amore mortale che unisce gli individui e li fonde in un attimo eterno di perfetta bellezza dentro alla vita che poi va. Ti faccio assieme una promessa, mio diletto: di te non perderò un instante perché è meraviglioso dormire con l’eterno e svegliarsi nel quotidiano.” A queste parole il Tempo nuovamente sedotto sorrise appagato.

Sognando Andrea

Entrarono dalla porta di legno impiallacciato, una di quelle che non hanno né arte né parte e che puoi comprare in un qualsiasi grande magazzino. Quella era la sua casa e lui ne andava fiero; si vedeva dall’espressione del viso dell’ uomo basso e tarchiatello. Lei si trovò immersa in uno spazio verde tirato a grassello. Il verde pisello, venato di bianco e grigio, ricopriva ogni parete e ogni soffitto dell’appartamento e con la sua sostanza di campi e natura faceva a pugni con la dimensione dei locali, piccoli buchi attaccati ad un corridoio che girava buio intorno a qualcosa che non apparteneva al appartamento. La cosa le stonava, lei non capiva come lui avesse potuto scegliere uno spazio del genere per vivere e quindi colorarlo così di libertà. Non le tornavano i conti. Poi ci pensò, lui appariva giovane, anche se nel suo cuore lei lo sapeva suo coetaneo; così quella, forse, era stata una scelta economica obbligata data la sua età ancora croccante. Mentre lei cercava di appiattire l’incongruità, lui si perse a fare cose, distratto da tutti i suoi ospiti e lei continuò a girare per quella piccolissima casa, sola con la sua sensazione di soffocamento. Oppressa da tanta strettezza, constatò che lui era gentile con lei, particolarmente gentile. Lui vegliava su di lei; infatti qualsiasi cosa lui stesse facendo od ovunque lui fosse, lei si sentiva nel suo campo visivo. Che sensazione gradevole era! Pensò che ciò fosse dovuto al fatto che nonostante i trent’anni di lui, loro fossero amici da almeno cinquanta e cinquant’anni di amicizia portano a comportamenti del genere, ma non volle andare oltre con quel pensiero per via di quella piccola differenza di vent’anni non proprio canonica. Così continuò a perdersi nel verde pisello strizzato dall’angusto spazio, girò un angolo e si trovò davanti al suo albero di Natale. Lo aveva costruito usando alcuni tavolini bianchi a forma di quadrifoglio impilati con gli steli uno sull’altro che aveva poi posato su un normale tavolo bianco con le quattro gambe di legno. Ogni petalo dei quadrifogli risvoltava verso il basso; su ogni petalo lui aveva accomodato una serie di addobbi natalizi; così, chi guardava vedeva il petalo delle palline, quello degli orsetti, quello dei festoni, degli angeli bianchi e degli angeli dorati. Sembrava tutto appoggiato, quasi abbandonato per essere poi riordinato. Gli steli dei tavolini a quadrifoglio giravano sul tavolo sottostante e, ruotando, i petali si abbassavano ulteriormente e gli addobbi rotolavano verso il basso senza mai però cadere oltre il bordo. L’effetto era bellissimo. Lei volle toccare un petalo disequilibrando il movimento e si ritrovò con un orsetto blu in mano, che frettolosamente cercò di riporre al suo posto mentre l’albero continuava a girare. In quel momento lui sbucò da un locale attiguo e le disse: “ Ti preparo da mangiare una minestra.” Lei gli sorrise e scusandosi gli disse che non era digiuna, ma sazia per la cena già consumata. Gli occhi di lui si illuminarono, e lei ne fu confusa, perché non capiva. Poi lui le disse: “ Bene perché a me non piace la minestra. Allora ora posso mangiare alla mia maniera.” Poi rise, le strizzò l’occhio ed andò in sala, che era pure piccola piccola. Lì un grosso tavolo rotondo troneggiava attaccato ad un frigorifero dalle dimensioni impressionanti. Lei lo seguì e quando vide l’ambiente non pensò tanto alla stranezza delle dimensioni degli oggetti, quanto al perché lui tenesse il frigorifero in soggiorno e non in cucina. Lui le fu al fianco ed aprì il frigorifero chiacchierando tranquillamente. Tirò fuori un vassoio Liberty di circa un metro e venti di diametro ove erano sistemati piatti e zuppiere coordinati pieni dei più disparati cibi. I colori dei cibi giocavano con tutti i riccioli dorati e sforacchiati della ceramica. Lei strabuzzò mentre il vassoio risposto sul tavolo lo occupò completamente. Lei ancora guardò incredula; … che oggetto meraviglioso era quello. Proveniente da un’altra era, appoggiato nel anno duemiladiciasette creava una frattura di tempo e spazio sorprendente da vivere. Col suo sorriso sempre ben stampato in viso, lui si sedette, ruotò il vassoio, e scelse il cibo da ingurgitare, prese il piatto e se lo piazzò in grembo. Toccò ad un hamburger con insalata e pomodori. Poi le disse: “ Così posso sempre scegliere cosa mangiare.” Lei gli sorrise indietro affascinata da tante stranezze. Mentre lui mangiava, fu attratta da alcuni documenti che riguardavano la sua propria vita e che erano arrivati a lui probabilmente a causa del suo lavoro. Nel suo cuore, infatti, lo sapeva avvocato. Con lo sguardo gli chiese se poteva darci un occhiata, lui le disse: “ Solo perché sei tu.” Venne ora di uscire. Lui le appoggiò un braccio sulla schiena e la accompagnò dolcemente attraverso una porta scorrevole. Così lei si ritrovò con lui in un montacarichi che saliva lento al piano di sopra. Lì attraversarono due ambienti, piccoli pure loro, la camera di lui e una specie di studiolo, entrambi disordinatissimi, e poi si ritrovarono di nuovo davanti alla porta di legno impiallacciato, quella che non ha né arte né parte e che puoi comprare in un qualsiasi grande magazzino. Uscirono. Lei nel suo intimo si chiese: “ Ma entrando la casa non era tutta su un piano? perché ora, uscendo, aveva invece due piani? ” Lui parve non dare importanza a questa piccola diversità. Forse, entrando ed uscendo spesso, ci si era abituato. Lei lo guardò di nuovo e fece un ultima riflessione: “ E pensare che quest’uomo per lavoro fa il soldato ….”.
Poi fu la notte….forse normale.

Il ragazzo e l’uomo

Loro sono due uomini. Uno adulto, cotto a puntino; in quell’età in cui si è sbocciati al’entusiasmo dell’indipendenza, senza avere ancora vissuto abbastanza per sentirne la fatica. Un uomo da “enta”, insomma. L’altro un ragazzetto che non meno di un mese fa si è alzato la mattina urlando a sua madre: “mamma da ieri sono un teenager”, cosa vera! … in un corpo, per dimensioni, adulto. Così la loro la possiamo descrivere come un’amicizia tra un Enta e un Teen. Accadimento raro oggi dove la differenza di età è una barriera divisoria impenetrabile che cade solo intorno ai cinquant’anni. Il giovane uomo, ancora non brizzolato, è un isolano e lo si nota dalla sua parlata che è tonda e ridondante, proprio come si addice ai suoni quando sono abituati a schiantarsi contro un mostro di enormità quale è il mare e che, per non dissolversi, devono tornare indietro sui propri passi e così si caricano ancora di più di se stessi. Ma a differenza della sua parlata, lui è un uomo fatto di corridoi e ponti, aperto alla vita e proiettato verso gli altri esseri umani che accoglie con un profondo sorriso dalla barba rasata. Il ragazzetto, invece, è nato e cresciuto in una metropoli e ha speso la sua giovane vita a metà tra la terra di nessuno, quale è la sua città, e la terra consacrata dall’altra parte del mondo, la terra indiana, ove suole passare parte della sua estate; così lui già sa che un fulmine non è sempre pericoloso allo stesso modo. È un ragazzino madre munito, ma non padre munito in quanto figlio di quel tipo d’uomo che ama alla follia il sangue del suo sangue, ma gli è sempre impossibilitato, per qualche incredibile motivo, spendere la propria vita a fianco della ricchezza in dna nata dai propri spermatozoi. E’ un tipo d’uomo-prodotto di questa era, lo si sta scoprendo, ma ancora non lo si conosce bene per darne una descrizione scientifica; tempo fa comunque non esisteva. Il giovane adulto ed il teenager si sono incontrati sul terreno di una passione comune, anche se par l’adulto stava significando lavoro e per il teenager vacanza un poco stile parcheggio per un grave problema sorto in casa. Qualcosa, durante quella quotidiana frequenza, è scattato tra i due uomini e da sconosciuti si sono trasformati in … famiglia … lo chiamerei. Non posso, da donna, descrivere un sentimento maschile perché non sono in grado di provarlo e pertanto mi è vietato riprodurlo in parole, ma posso descrivere ciò che i miei occhi hanno visto e, tra quei due, hanno visto nascere un’attenzione rara, fatta di disponibilità, presenza, gentilezza, costanza, rispetto; l’adulto verso il ragazzo ed il ragazzo di ritorno all’adulto. E’ come se loro due si fossero notati tra molti e scelti per costruire qualcosa che tocca l’intimo del loro animo, ma che ancora stanno scoprendo. Per questo non mi è venuta altra parola che famiglia, perchè entrambe le relazioni possiedono lo stesso nocciolo fatto di mistero e concretezza. Ed è qui che mi incanta la loro storia; è nel vederli scoprire e costruire quel legame che si è creato per un caso destino che li ha visti entrambi in un luogo ed in un tempo contemporaneamente. Quello tra i due giovani è un legame che li lascia liberi di vivere la propria vita tanto diversa per età, ma che rimarrà una costante nel loro futuro comune di uomini. Come lo so? Perché è un legame che li ha segnati. L’adulto lo dimostra con infinite gentilezze verso il ragazzo. Lui è un adulto che c’è in mille modi nella vita del ragazzino, ed è un esserci fatto di concretezze palpabili. E’ un esserci che si spende nel mondo reale e non nel mondo delle parole o delle intenzioni.
Che meraviglia a guardarlo!
Il ragazzo lo dimostra da ragazzo. Per descrivervi la sua bellissima modalità, do un nome all’adulto, poniamo che si chiami Antonio, anche se questo è più un nome da “anta” che da “enta”, ma gli si addice per i richiami eroici del nome al valoroso condottiero dimenticato per le sue gesta dai suoi discendenti ed osannato per le medesime gesta dai suoi posteri. Orbene quando il ragazzo parla a sua madre del suo amico adulto non lo chiama semplicemente Antonio, ma lo appella sempre dicendo: “il mio Antonio”; quando ciò accade, la madre sa che dentro al quel “mio” non esiste traccia di possesso, ma che tale parola è la culla di ciò che tra loro è nato per quel caso destino che rende belle le vite umane; la madre sa anche che quel “mio”, urlato felice, è il contenitore amorevole di ciò che entrambi vorranno metterci in futuro; è uno spazio vuoto da riempire di vita; così, quando il ragazzo dice “ il mio Antonio”, alla madre sobbalza il cuore di felicità, per quella condizione rara regalata al proprio figlio.
Che meraviglia a guardarli!
So, perché li ho sentiti direttamente, che nessuno più in quella casa chiama l’adulto Antonio, perché per tutti è diventato “Il mio Antonio”. Questa è la famosa proprietà transitiva che esiste tra madri e figli.
Ma, da donna, io so anche che quella madre utilizza tali parole per onorare agli occhi del figlio quell’amicizia nata tra lui, teen, e l’uomo negli enta.
Perché vi ho raccontato questa storia? Perché è una storia normale.