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Maschi puntata 1- Il sapore speciale della vita

Riuscite a ricordare il primo momento dal sapore speciale della vostra vita?
Il suo sapeva di polenta e latte.
Accadde nell’estate dei suoi dieci anni, quando ancora era la Regina della Collinetta. Come aveva fatto a diventare Regina?
Questo ve l’ho già raccontato!
A quei tempi il mondo era facile; aveva solo 4 classificazioni: scuola, vacanza, maschio, femmina.
Mentre le prime due categorie erano chiare in testa a tutti, le ultime due non poi così tanto. Si sapeva che tutti gli esseri viventi erano divisi in due grossi gruppi: maschi e femmine a parte le lumache che boo!
Quello che ti faceva appartenere all’uno o all’altro gruppo era semplicemente il modo in cui facevi pipì, perché la cacca la facevano tutti comunque nello stesso modo.
Insieme alla cacca qualsiasi altra azione della vita era svolta ugualmente sia che si fosse maschi o femmine. Così, essendo identici se non per quell’unico bisogno, tutti i ruoli di quella società fanciulla erano declinati sia al maschile che al femminile, e lei essendo un capo e femmina era diventata regina.
Ovviamente esisteva anche lui, il capo maschio, che facendo pipì nell’altro modo, era invece ritenuto il Re della Collinetta. Loro erano di regal nascita semplicemente perché nati per primi.
Erano grandi amici, si cercavano sempre, organizzavano i giochi assieme, si scazzottavano spesso tra loro, si prendevano in giro e si difendevano l’un l’altra. A correre…. lui la batteva di poco, essendo più grande, ma non doveva distrarsi se voleva vincere; a botte… lei era pericolosa perché le dava di santa ragione e spesso aveva la meglio; a salire sugli alberi… ognuno di loro ne aveva conquistato uno alto, così erano pari; a giocare al pallone… lei era brava in porta per il resto faceva schifo, lui era bravo ovunque; a sciare… lei era brava, lui un imbranato; … lei non diceva parolacce, lui sì; …lei conosceva tutti, lui non così tutti; per il resto…andavano entrambi a scuola e andavano in vacanza sempre nello stesso posto.
Queste erano cose naturali, date dal fatto di essere bambini.
La vita era così, non cambiava mai, punto!
Quell’estate verso inizio settembre venne organizzata una festa al ChicchiBum, chissà come mai? Non lo avevano mai fatto prima! … Comunque … tutti i bambini furono costretti a parteciparvi essendo ancora obbligatorio per tutti seguire i genitori. Erano una bella ciurma che rasentava le cinquanta teste.
Il Chicchibum, luogo non lontano dalla Collinetta, era normalmente off limits per i bambini dato che per arrivarvi bisognava attraversare una strada trafficata e la cosa non veniva ancora loro permessa; pertanto quella appariva un’interessante trasferta perché si sarebbe potuto giocare, cosa rara, con i bimbi vicini.
Immaginatevi il lavoro del re e della regina: la preparazione al viaggio, il coordinamento delle truppe, l’assegnazione dei ruoli una volti arrivati, cosa fare e cosa non fare a seconda di cosa facevano gli altri….
Il giorno arrivò e la festa iniziò.
Allo scrocchio dell’una la polenta fu pronta. Ai bimbi toccò polenta e latte. Vennero tutti richiamati dai giochi, messi in fila e serviti. Anche al re e alla Regina venne riempito il piatto fondo e consegnato un cucchiaio. Lui le disse: “vieni con me, non farti vedere.” Lei gli corse dietro. Si ficcarono a mangiare sotto ad un tavolo di plastica bianca coperto da una grande tovaglia. Lui fece in modo che la tovaglia li nascondesse da tutti, grandi e bambini. “Ecco qui non ci trova nessuno possiamo starcene un pochino soli io e te! Ti piace la polenta?” disse lui abbracciandola e cercando contemporaneamente di non rovesciare il contenuto del piatto. Lei si girò verso di lui trovandosi con il viso stranamente troppo vicino al suo naso e, guardandolo, gli vide uno sguardo appiccicato agli occhi che non gli aveva mia visto addosso. Un brivido come non ne aveva mai provati le corse giù lungo tutta la schiena e lo stomaco le si ribaltò, poi, come d’incanto, perse tutta la sua sicurezza e spavalderia. Si senti disarmata e spaventata da quella strana nuova intimità. Sentì che tale vicinanza di colpo aveva creato una distanza incolmabile tra lei ed il suo amico maschio. Nel giro di uno sguardo lui non era più il lei maschio, ma un essere distinto capace di far sorgere profonde e bellissime emozioni.
Qualcosa del genere doveva essere successo anche a lui perché quello sguardo ravvicinato per un attimo le parve come imbarazzato ed assieme emozionato. L’occhiata li zitti  entrambi e modificò per sempre il loro sorriso da spensierato a complice.
Finirono la loro polenta e latte nascosti al mondo, ma presenti l’un l’altro come mai prima.
Fu così che sotto a quel tavolo, con la polenta in bocca e la faccia del suo amico a un centimetro dal naso, Lei trasformò lui in Lui, estinse la propria fanciullezza e fece nascere una realtà sconosciuta e tutta da scoprire.
Il mondo dei maschi da allora non fu mai più lo stesso per Lei.

Meduse e gamberetti

L’acqua non era il suo ambiente, ma quella distesa di meduse e gamberetti, sparsa nel verde di laguna, aveva un tale richiamo su di Lei che semplicemente si trovò a scendere i gradini di legno e ad immergersi con la delicatezza che i suoi cinquant’anni ancora le permettevano. Si muoveva lentamente, solo i minimi gesti necessari a non annegare per non disturbare quell’andare di pesci. Le meduse si spostarono il tanto che basta per farle spazio e poi si ridistribuirono come se lei facesse parte di quelle acque da tempo. Non la temevano, non la attaccavano. I gamberetti, ancora di color nero, perché vivi e crudi, parevano pensarla come le meduse e semplicemente si aggiustarono un poco. Così lei trovò il suo posto in quel popolo di gelatina e baffi neri. Con la bocca a filo delle acque baciate dai raggi del sole di tramonto ed i capelli infuocati dai medesimi lampi, alzò i palmi verso la luce, ma sotto al limite liquido ed aspettò. Le meduse presero a passare sopra quelle mani rivolte alla luce e vi si adagiarono dentro forse a provare la stasi in palmo umano o forse senza nemmeno sapere il perché. Lei chiudendo le dita riusciva a toccare il dorso degli animali; e, ad ogni tocco, l’animale reagiva muovendo tutti i tentacoli fino a sfiorarla. Era un poco come se un essere fosse lo strumento musicale dell’altro. Mentre questa musica di corpi avveniva altre meduse e gamberetti la sfioravano ovunque nel corpo, come ad assaggiarla, per poi continuare nel loro moto subacqueo. Lei perse il senso del tempo dentro a quel concerto bagnato, gelatinoso e lucente. Tornò a se stessa quando il sole aveva ormai perso i suoi raggi e le acque si erano fatte nere e scure. Lasciò gli animali alle loro faccende notturne ed uscì dall’acqua. Pura vida.

La terza età

Erano anni grassi quelli in cui lei era nata, tutto era abbondante; così pure la vita che si era allungata a dismisura tanto che venivano continuamente inserite nuove età. La terza, aveva lasciato il posto alla quarta, poi alla quinta ad in fine alla sesta, età nella quale, pare, fosse ora lecito morire. Lei ricordava l’ultima età dei suoi nonni che era stata la terza. In realtà quel periodo era durato circa trent’anni, durante i quali i progenitori avevano vissuto da vecchietti, idealmente malati, senza mai uscire di casa e in attesa della morte che però si era fatta aspettare fin ben oltre i loro novant’anni con grande felicità della donna, allora giovane donna, che adorava andare a mangiare risotto, frittata di pane e caffelatte da loro. I due vecchietti alla fine si erano abituati a questa terza età che non finiva mai, perché trent’anni son tanti, e alla morte avevano smesso di pensare, ma rimasero comunque sempre idealmente malati e sempre chiusi in casa, tranne che per andare a fare la spesa. Anche queste sporadiche uscite erano però sempre identiche, soprattutto per gli alimenti comprati che consistevano in: formaggio crescenza, prosciutto crudo, pane, patate, prezzemolo, uova, riso, verdure verdi da fare crude e cotte, grana, mele e tamarindo. Ogni cosa doveva essere sempre la stessa per qualità e quantità, in onore della morte in arrivo; così per colazione si mangiava caffelatte e pane secco, per pranzo, risotto o pastasciutta con verdure cotte, formaggio e purè o patate olio e prezzemolo, per cena frittata col pane, prosciutto e mele cotte. Il tamarindo serviva per la granita di metà pomeriggio.

La donna ancora conservava nell’orecchio il rumore del trita ghiaccio rosso e bianco e, ogni volta che un suono simile la colpiva, le tornava in bocca il sapor di granita; allora lei sospendeva ogni attività la stesse occupando, si sedeva e, semplicemente, sorseggiava quel liquido passato pensando ai suoi due nonnini, un tempo tanto amati.
La sua era, non era un tempo che sapeva contemplare la morte; non c’era età in cui essa fosse considerata; figuriamoci attesa. Così ora alla donna, ormai sulla soglia della propria terza età, si erano un poco confuse le idee perché, a lei, la vita era andata chiudendo molti capitoli; la maggior parte dei quali in anticipo sulle previsioni di una normale esistenza se non addirittura nel momento in cui ancora si trovavano al loro stato embrionale e perciò l’età che avrebbe dovuto chiudere e tirare le somme di un’intera vita si trovava in totale mancanza di argomenti e la lasciava spiazzata.
Terza, quarta, quinta, sesta età; ma cosa diavolo ci avrebbe fatto lei? Il matrimonio era chiuso e dimenticato; i figli ormai indipendenti e senza più richieste di accudimento; il lavoro si era esaurito di suo; anche una grave malattia era sopraggiunta ma poi passata. Cosa mai ancora mancava alla sua vita? L’unica cosa che le veniva in mente era la permanenza; tutto si era contratto e risolto in corti; anche la malattia, che era grave e che al tempo dei suoi nonni l’avrebbe lentamente e dolcemente avvicinata alla morte, per lei era stata invece un episodio, uno dei tanti, venuto e andato.
Così, ora, sulla soglia della terza età, le toccava nuovamente inventarsi qualcosa “da” vivere perché non c’era più nulla “per cui” vivere essendo i capitoli della sua vita praticamente tutti già chiusi.
Poiché non poteva concedersi la stagione del raccolto, doveva nuovamente piegarsi alla semina.
Che fatica! – pensò.
La sua terza età veniva così molto ad assomigliare a quella che chiamavano adolescenza con due uniche diversità: il fatto che avvenisse non dopo l’età dell’incoscienza, bensì dopo un’intera vita vissuta e per la spinta alla vita che era basata sull’entusiasmo delle premesse, nella prima età d’oro, mentre poggiava i suoi piedi sulla disillusione nata delle molte conclusioni occorse, nella seconda.
Quegli anni grassi avevano reso la sua vita una serie di cortometraggi non abbastanza lunghi da occupare tutta una esistenza; così ora a lei toccava, da buona regista, trovare un nuovo copione da voler mettere in scena e spendere la sua terza età e forse anche la quarta nel casting di nuovi attori, significati e scene.
L’immobile attesa chiusa sul passato e sul futuro, propria degli ultimi anni dei suoi nonnini, in lei era invece diventata dinamica aspettativa aperta su un futuro ancora pieno di promesse giovanili solo date in assaggio, ma mai compiutamente concesse.
E’ in questo modo che l’età moderna ha sconfitto la morte: negando il tempo della contemplazione contemporanea della vita vissuta assieme alla morte da vivere ed imponendo continuamente nuove adolescenze di un’esistenza resa episodi in serie.
Eterna giovinezza.

Mio diletto

Ho ricevuto la vostra missiva, mio diletto, e non sapete con quale piacere ho gustato le vostre parole. Esse entrano nelle mie stanze nei modi sempre rocamboleschi coi quali ardite arrivare a me. Quasi voi vogliate lasciare al caso la consegna di ciò di cui mi scrivete. È per questo che mi siete caro, mio diletto, perché mai avete la pretesa che io riceva le vostre attenzioni. Trovo una tale libertà in questo da spingermi a pensare che voi non ricerchiate la mia compagnia per una qualche manchevolezza della vostra vita, ma che al contrario la passione che vi porta a frequentare la mia più profonda intimità sia espressione dell’abbondanza della vostra vita. Avete scritto che volete un mio pensiero sull’idea che io completi voi e voi completiate me. Nulla di più sbagliato, mio diletto. Sì, lo so che da Platone in poi questo è divenuto il pensiero comune, ma no! Sia io che voi sappiamo la falsità di questa affermazione, solo che al mio cuore ciò è palese, mentre al vostro, mio diletto, ancora no. Lo è però al vostro corpo che mi ama nella coscienza di sapere sé essere completo. Vi prego, mio diletto, lasciate che anche la vostra mente veda la libertà che consegue dall’amarmi sapendo di essere voi stesso essere compiuto che in nulla abbisogna di me. Lasciate che la vostra mente possa godere di me come ne è capace il vostro corpo. Ammetto, mio diletto, che larga parte della vostra vita come della mia sia stata spesa nella ricerca della più profonda felicità, e non vi stimerei come vi stimo se non avessi percepito questa potente spinta in voi; il vostro viver ed il mio mi confermano che io e voi abbiamo incontrato in noi stessi i migliori compagni della nostra vita. La metà tagliata che tanto fa ricercare Platone nelle parole di Aristofane a uomini e donne, ognuno di noi stessi l’ha trovata in sé. Sì, mio diletto, io e voi siamo due esseri completi che si cercano per godere dell’altro senza pretendere di esserne completati. Io e voi non ne abbiamo di bisogno. La passione che ci infiamma i corpi porta all’estasi perché di nulla è carente, l’ardore delle nostre conversazioni ci spinge ogni giorno ad avvicinarci perché non richiede conferme. Io vi amo, mio diletto, e tremo per voi quando vi vedo invischiato in quel tipo di amore che ancora dipende dall’altro, ma ancora più temo per voi quando siete vittima di un amore del genere, ma amandovi io nella vostra completezza, appoggio lo sguardo su ciò che al momento vi sazia la vita e lo faccio mio perché vi voglio comodo quando raggiungete le mie stanze di edere adornate. Sappiate, mio diletto, che sempre io vi sarò compagna senza invadere la vostra vita con ciò che manca nella mia. Vi sarò compagna per ciò che esiste nella vostra.  Io sono cosciente di aver già conquistato ogni singolo pezzo di me stessa donna ed anche ogni singolo pezzo, mancante, di me stessa uomo. Per questo io sono autonoma e in nulla dipendo da altri esseri umani. Aristofane ha ragione quando dice che trovata l’altra metà gemella si genera la specie cui si appartiene; ed io ho generato me donna, come voi, mio diletto, avete generato voi uomo.

Mai tra noi ci saranno i silenzi che nascono dal fastidio di comportamenti pretesi a completamento, ma nemmeno mai ci sarà tra noi la potente esaltazione che nasce nello scambiare richieste per attenzioni. No mio diletto tra noi ci sarà solo la passione dei corpi ed il proficuo dialogo di due menti brillanti. Condivideremo parte della nostra vita, così, nei modi che capiteranno, rocamboleschi o scontati a seconda dell’occasione, ma ognuno di noi avrà la libertà di vivere se stesso prima di vivere l’altro. Questo sarà sempre ciò che mi lega a voi ed è per questo che vi amo, mio diletto, e con voi amo ciò che riempie la vostra vita. Vi lascio, come al solito la chiave dell’uscio sotto al vaso in terracotta dalla forma di anfora. Usatela a vostro piacere.

Non uccidete la madre

Una futura regina al suo terzo figlio che a tre ore dal parto appare al mondo fresca come una rosa, bellissima nella sua perfezione di donna regale, ma cancellata nella sua fatica di donna che genera vita.
La compagna di un rapper che, a un mese dal parto, viene esaltata da voce di donna perché nel suo corpo non mostra già più alcun segno della maternità appena conclusa.
Due parti famosi. Due maternità uccise. Sacrificio umano al Dio politically correct.
In termini assoluti non è grave perché due e’ un numero tendente a zero se comparato alla quantità di femminile che popola il mondo.
E forse non è nemmeno grave perché ogni sacrificio ha in sè la potenza stravolgente dell’oggetto sacrificale che prende forza dalla propria esecuzione per divenire valore assoluto dentro al martirio.
Come l’altare a forma di bocca fagocitante mangiava vergini bruciandole nella sua saliva lavica per tenere buono il Dio vulcano. Così il palcoscenico moderno sbianchetta l’imperfezione della madre che genera vita, per esaltare la perfezione della donna che non ha generato.
La regola tribale, con radici nella paura e fiori nella volontà di sopravvivenza comune, vive ancora fiorente nel mondo contemporaneo non più in grado di sostenere la visione della vita che deforma la vita per vivere.
Il parto proietta infatti la donna dritta nel mondo della fatica che diventa elemento strutturante del suo corpo e della sua vita.
È la fatica che, negando la donna, fa nascere la madre e le permette di assolvere il proprio ruolo privato di accudimento. Il passaggio da donna a madre è un dare la vita nei due significati di sacrificare sé e generare altro da sé.
Questa è la maternità dentro alla quale l’essere umano si sviluppa. Questo è il significato di mamma.
Ogni madre nella maternità rivuole poi indietro la donna che sa di essere stata aprendo la strada al più grande miracolo che l’umano sia in grado di fare. Ella infatti, nel tempo, riesce a mondarsi dalla fatica e a riappropriarsi di tutta se stessa; ed è permettendo a se stessa di tornare donna che regala la libertà di Essere al propria progenie.
La donna che sacrifica se stessa per dare la vita, autorizzandosi a generare fino nel profondo del significato crea un nuovo umano e si rinnova donna arricchita dall’essere anche madre.
Ma questo e’ un processo che richiede anni. La madre deve potersi esprimere come madre ed essere riconosciuta tale dal mondo esterno affinché possa, ella stessa, esistere madre nell’intimità.
La società dovrebbe così farsi uomo e saper proteggere questo passaggio che si esprime in un corpo deformato, nella stanchezza cronica, nel ripiegamento totale verso la nuova vita; nell’incapacità di essere lavoratrice a tempo pieno.
La società dovrebbe cullare la madre, che ha ucciso la donna sapendo che col tempo genererà vita altrui tornando a se stessa donna.
Ma questo è un valore esplosivo come un vulcano e fa paura perché non controllabile e così il mondo contemporaneo ha spolverato di nuovo l’altare. Vi imola madri esaltandole donne, ma così facendo toglie all’umanità le mamme e alle donne la completezza.
Genitore 1, genitore 2. Punto.

Il fazzoletto in borsetta

Frugando nella borsetta cercava il fazzoletto di cotone. Trovato, lo estrasse tirandolo da un angolo e le pieghe della stoffa si disposero a mostrarle la R ricamata a blu sul fondo azzurro. Il fazzoletto le riportò alla mente gli asciugamani che da anni giacevano intonsi, nelle loro confezioni trasparenti, sul ripiano del suo armadio anch’essi con le R all’insù. È allora che lei decise. “Voglio sposare un uomo che inizi con la R”. Lo pensò continuando a guardare il fazzoletto, ma con negli occhi gli asciugamani che giacevano là sul ripiano dal giorno dopo il matrimonio, quando lei, sposina, ve li aveva riposti come contrassegno della radiosa quotidianità che si sarebbe concretizzata da lì all’eternità. Il cotone antico, la spugna pregiata ed i ricami non li rendevano adatti all’uso quotidiano, ma erano perfetta rappresentazione del gesto sacro che ognuno di loro aveva donato all’altro. Nella mente di lei anche il set di pentole azzurre, che provenivano dall’Inghilterra e che teneva nell’armadio della sala, erano la rappresentazione della nuova vita sacra, ma essendo pentole comuni, un giorno, decise di usarle ed esse così passarono allo scaffale della cucina ed oggi erano ancora lì logorate dall’uso quotidiano. Insieme alle pentole negli anni si logorò anche il matrimonio fino a sciogliersi; il tempo passò e così gli asciugamani vennero dimenticati, mentre le pentole, senza più alcun significato, continuarono ad essere usate.
All’improvviso, quel giorno, mettendo le mani in borsetta, sentì l’esigenza di dare un senso a quegli asciugamani. Decise di recuperare ciò che impregnava le salviette dimenticate anni prima. Le venne voglia di sporcare il futuro di passato. Il suo, non certo il loro. Ecco il pensiero di tornare alla R. Voleva un legame con quel punto tanto potente da entrare negli asciugamani. Voleva solo questo. Il resto non era più necessario.
È incredibile cosa le donne a volte trovino nello loro borsette.
Nella sua aveva rincontrato il senso di loro, un sentimento oggi scremato da qualsiasi riferimento umano, ma ancorato nel suo corpo tanto da pungere ancora molte delle sue scelte.
Non so se è una cosa di specie o solo una sua caratteristica, fatto è che questa urgenza era là intatta nella sua borsa e ora era finita nuovamente tra le sue dita.
Lei la estrasse, senza un apparente motivo.
Non conosceva nessun uomo il cui nome iniziasse con la R. No, non era vero, in realtà ne conosceva parecchi, ma nessuno era da R stampata su fazzoletti ed asciugamani, nessuno le ispirava un senso plurale; pensandoci nessuno le ispirava nulla.
“Questa sì che è un’incrinatura della mia vita” pensò.
Così, nel tempo di una mano in borsetta optò per la tabula rasa, fece pulizia scopando via tutti gli uomini che le avevano occupato il pensiero in quel tempo; o forse più che occupato sarebbe opportuno dire: “erroneamente asservito”.
Strinse la R nelle mani e si soffiò il naso.
È così che lei smise di dare il fianco alle storie da poco; a quegli uomini che chiedevano, ma nulla volevano dare, o peggio a quegli uomini che manco chiedevano; alle loro parole piccole e alle loro situazioni ordinarie.
Voleva la R sugli asciugamani.
È così che si placò.
Aveva avuto modo di rigirarsela tra le mani a lungo la R in quegli anni, ormai ne conosceva ogni singolo punto cucito. Non desiderava più fare incontri piccoli, lei la R l’aveva in borsetta, se le fosse capitato di incontrarla di nuovo nel mondo, l’avrebbe sicuramente riconosciuta e quindi sposata. Altro non esisteva.
Si risoffiò il naso e andò a far compere.

L’amore algido

Lui possedeva due tesori; uno era se stesso, l’altro i suoi figli. Era un uomo nato brutto, nulla del suo fisico attirava l’interesse delle donne, se non forse l’altezza. Lei ricordava, molti anni prima quando l’aveva appena conosciuto, il senso di fastidio che l’incontro con lui le aveva procurato proprio a causa di quei lineamenti strani. Era stata la necessità del lavoro a obbligarla a tornare a vedersi con lui, altrimenti mai lei si sarebbe nuovamente avvicinata a quell’uomo. Poi dentro al lavoro lei scopri’ il vero valore di quella creatura alquanto spigolosa. Capì che il corpo fatto a quel modo era solo la protezione umana di un’essenza maschile rara di cui forse nemmeno lui era conscio. La rarità stava nella luce gioiosa con cui lui affrontava la vita; una mente intelligente e malleabile si accostava ad un cuore profondo e aperto; in questo modo lui fronteggiava la sua difficile vita, alquanto più difficile di quella di molti. Ma queste caratteristiche non concludevano quell’uomo raro. Nonostante l’estrema magrezza del corpo, lui era infatti molto più ingombrate, lo era tanto da andare oltre lo spazio fisico; lui entrava direttamente negli strati sottili dell’universo. Un pezzo di lui dimorava infatti alquanto vicino a Dio. Sì lui era un uomo dotato di anima, bella e solare e birichina. Questo era il suo primo e profondo tesoro: un corpo rinsecchito che conteneva un uomo palpabile. Lui si era mostrato a lei così un giorno per caso e da allora lei lo custodiva avvolto dalla loro amicizia dentro al suo cuore. Era un’amicizia lasca che permetteva ad entrambi di assaporare la libertà della propria vita; ognuno dei due con un polpastrello impiantato nell’altro, così di sicurezza, per sapere sempre dove andare quando l’affinità o la fatica chiamava. Proprio quell’amicizia libera le aveva fatto scoprire l’altro suo tesoro. Un numero elevato di figli che lasciava assaporare l’abbondanza della sua vita e che molto contrastava con le sue carni scarne. Lui in questo le era contrario, perché lei invece aveva carni abbondanti ed una vita in alcuni sensi alquanto limitata. Accadeva che si ritrovassero tutti assieme e così lo sguardo di lui si ampliava a ricomprendere il figlio di lei e lo sguardo di lei accarezzava i figli di lui. I suoi maschi erano ancora nell’età dell’accudimento, le femmine invece appartenevano già al mondo che si centra sui dialoghi, per le relazioni, e che ha in sé il seme dell’indipendenza per quel che riguarda se stessi. Dietro agli sguardi reciproci accadevano poi gesti e seguivano parole che legavano i cuori. Sì quella era un’amicizia grande perché dentro ci stava tutto di loro. Lui era paterno con il figlio di lei ed il ragazzino lo guardava con affetto misto ad ammirazione, lei era materna con i figli di lui, dava ai maschi attenzioni di servizio per accertarsi della loro serenità ed incolumità e dava alle ragazze tempo e chiacchiere per avvicinare la sua femminilità matura alla loro nascente e loro le restituivano affetto ed interesse. Il loro era un rapporto rivolto oltre se stessi e capace di accogliere tutto dell’altro. Un giorno lui le disse che aveva una fidanzata, per un poco aveva voluto tenersela per sé, ma ora era tempo che anche lei sapesse. Quando lui smise di raccontare, agli occhi di lei apparve una fidanzata comoda, straniera di nascita e di vita, poco impegnativa e sempre bella come lo sono le fughe d’amore che non impegnano la vita ma saziano i sensi. Lei era felice che nella vita dell’amico vi fossero momenti di pura bellezza senza pensieri, lui se lo meritava. Poi col tempo le parole di lui cambiarono e la fidanzata diventò compagna nella sua bocca; no questa non era più una fuga d’amore era qualcosa di molto più profondo anche se ancora la forma era quella della fuga. Per anni lei seppe della compagna senza però mai avere occasione di incontrarla finché un giorno capitò, come capitano gli appuntamenti non programmati. Lei era curiosa di conoscere la donna che occupava il cuore del suo amico, donna sconosciuta, ma famigliare. Era curiosa perché sentiva un legame verso quella sconosciuta che nasceva dal profondo del rapporto con lui: se per lui era importante lo era anche per lei proprio per via di quell’amicizia aperta che tutto accoglieva. Passarono un fine settimana assieme con tutti i ragazzi; anche la compagna aveva infatti una figlia, così di ragazzini ce ne era a sazietà. In questo modo lei toccò con mano la loro forma d’amore. Era bella quella donna straniera, non oggettivamente bella, ma aveva tratti dolci e uno sguardo ammagliatore; si muoveva lentamente ed era lieve nei sorrisi e nei dialoghi. La parte maschile di lei capì perfettamente perché l’amico si fosse legato a quella donna che chiedeva attenzioni e tenerezza. L’amica però osservò con sorpresa la modalità con cui la compagna chiedeva attenzioni. Lei lo faceva togliendolo dalle situazioni, il suo era un amore esclusivo ed esigente. L’amata amava l’amico di un amore annientatore che si ripiegava su se stesso invece di aprirsi al mondo; un amore incapace di accogliere ciò che va al di là dei propri desideri. Quello era un amore che dietro alla dolcezza nascondeva la pretesa. Incuriosita da questa modalità, l’amica spostò l’attenzione sui ragazzi; guardò come la compagna trattava la figliolanza, ma si accorse che la compagna non trattava affatto la figliolanza, ci stava semplicemente accanto con il suo sorriso dolce, non un gesto verso di loro, non una parola; che differenza con lui che accarezzava la figlia di lei con gesti, parole ed attenzioni con la stessa modalità paterna che aveva verso i propri figli e verso il figlio dell’amica.
Lei pensò che no, non era la forma d’amore che voleva toccare nella sua vita; no non era la forma d’amore che si meritava quel tesoro d’uomo. Poi pensò anche che no non era la forma d’amore che si meritavano quei tesori di figli. Si affaticò molto a vivere l’amore del suo amico perché non risuonava di libertà e lei sapeva se stessa libera e pure il suo amico libero e così educatamente si sottrasse. Sola, nell’intimo della sua casa pensò a quanto lavoro aspettava il suo amico per fare di quell’amore da luna di miele un amore eterno. Sempre sola nell’intimo della sua casa lei aggiunse una categoria alle forme d’amore che conosceva: l’amore algido.

L’Amazzone

Lei era un Amazzone, ma non del tipo vecchio; non era una donna guerriera senza un seno, o con un grande seno, a seconda del significato che si vuole dare alla A. Lei era un’amazzone moderna, nata per colmare di significato il vaso vuoto del gender, categorizzazione dell’umana natura di recente invenzione, scritta a tavolino per sostituire definitivamente l’uomo proletario, quello maschio puzzone e guerriero, con una serie di declinazioni pseudo-femminili più mansuete e rassicuranti per l’establishment, ma devastanti nei confronti della essere umano.  Mentre l’uomo moderno decideva se soccombere a questo destino tracciato oppure mostrare gli attributi e restituire all’umanità e alla civiltà il valore del maschio, lei si era presa per decisione uno dei posti disponibili nel grande paniere del gender. Lo aveva fatto anche per una secondo motivo molto più frivolo: era stufa di dividere i bagni pubblici con la categoria handicap e finire con il farsela nei pantaloni, a causa del wc troppo alto, ogni volta che le scappava pipì e non riusciva a trattenerla fino al bagno di casa. Quindi forse il suo fine ultimo, in fondo, era solo ottenere un gabinetto pubblico dedicato. Quello che è certo è che lei non scelse di divenire un’amazzone, semplicemente le capitò. Lei che adorava il suo essere donna, con quel corpo imperfetto, ma armonioso, e quei sensi oltremodo sensibili, ma altrettanto coriacei, si trovò trasformata in Amazzone. Dovete sapere che prodotto dell’età moderna, oltre al gender e al politically correct è anche il cancro; ma mentre i primi due sono schemi culturali, il terzo è uno stato umano. I primi due sono imposti da fuori, c’è, per ora, ancora un margine di scelta; il terzo avviene, te lo becchi e ci fai i conti senza scelta. Per diventare Amazzone deve venirti un cancro al seno, non un cancrino, che spaventa da morire, ma lascia pochi segni; uno devastante, aggressivo ed esplosivo che impone le sue regole e non gliene frega niente se sei spaventata oppure no. Il cancro al seno sta al divenire Amazzone oggi, come i riti di iniziazione stavano al divenire Uomo tempo fa. È un’iniziazione fatta di avvenimenti sequenziali ai quali devi sopravvivere. Primo: la perdita momentanea dei simboli esterni del tuo essere donna con la caduta dei capelli e l’annerimento delle unghie; serve a destabilizzare tutte le tue sicurezze in relazione a chi sei tu rispetto agli altri. Secondo: la perdita momentanea della dignità del vivere con la disintegrazione fisica che ti annienta sdraiata su un letto; serve a tarare la tua forza di volontà e la tua voglia di vita. Terzo: la perdita definitiva del tuo intimo potenziale di madre con la distruzione del ciclo mestruale; serve ad insegnarti l’accettazione incondizionata dell’imprevisto. Quarto: la perdita definitiva di parte della tua femminilità esteriore con il sacrificio alla vita della mammella, se sei fortunata, delle mammelle, se non lo sei; serve a trasformarti in qualcosa di fisicamente diverso.  Poi però, se passi attraverso a tutto ciò senza perderti nel mondo nero della paura e della rinuncia che porta alla morte diventi, per merito, un’Amazzone e puoi chiedere a gran voce e per diritto, il tuo bagno pubblico dedicato, oltre che mettere la tua stanghettina nella lista gender sotto la voce: tipologia Amazzone. Quale delle due A descrive l’Amazzone moderna iniziata dal cancro? Decisamente non la privativa, ma la rafforzativa. Infatti le Amazzoni di oggi sono dotate di grandi seni primo perché la mutua passa anche la chirurgia estetica ricostruttiva e quindi perché no; secondo perché tale violenta iniziazione non può che presupporre uno stato di profonda trasformazione in senso rafforzativo; non a caso si parla di sopravvivenza a cinque anni, mica di guarigione. Non più, allora, le donne guerriere di un tempo, ma le donne donne donne di oggi; donne periodico se lo vogliamo esprimere in termini matematici. Così, a parte infinocchiare gli strateghi della nuova società occupando un posto destinato a creature più mansuete e gestibili, le Amazzoni vivono, prescelte, lo stato di “conclusione”, o meglio: “di conclusione sommata a tutti i suoi sinonimi come elencati nelle enciclopedie: compimento, deduzione logica, risultato, realizzazione, definizione ”. Vedono ogni declinazione della vita in modo diverso; di essa percepiscono l’aspetto unitario, quello che porta perfezione e bellezza. Un’Amazzone appena nata, magari ancora sdraiata nel letto di un ospedale, vede, per esempio, il mondo maschile che nel corso della sua vita di semplice donna le si è sviluppato attorno tornarle indietro nella sua forma più pura. Sta tutto lì davanti ai suoi occhi; imperfetto come il vivere lo ha reso, ma incontaminato come l’attimo che l’ha generato. Solo l’Amazzone è in grado di percepire, in un istante, la meravigliosa complessità e perfezione di quel mondo estraneo che per anni era parso più ostile che amico; quasi inferiore per capacità dimostrate.  In un istante lo tocca, unico e vario, e sente come ormai superato il suo essere discordante. In un attimo secondo è in grado di vedere risolta in sublime unità ogni particolare singolarità che è stata presente nella sua vita.   C’è l’amore paterno che come un’ombra si stende e protegge, sempre presente, incondizionatamente, un passo indietro, ma mai di spalle. C’è l’amore filiale, tremulo e spaventato, che ancora ha bisogno di vedere per rassicurarsi. C’è il matrimonio spezzato che mostra il vero significato della sua indissolubilità attraverso domande che pretendono per risposte liberatorie rassicurazioni. C’è l’uomo che ti ha guardato negli occhi in mille maniere e si siede silenzioso perché ormai le parole non servono più, c’è ancora l’uomo che sorprende se stesso per un legame che ha scoperto non legare; e c’è l’uomo che non parla parole pericolose, ma che ha scritto nel corpo ogni singola lettera del suo pensiero; c’è l’uomo piantato nel suo volere cui però scappa la curiosità per un poi che non lo annienti e c’è anche l’uomo che in preda al panico nero si aggrappa là dove può, ma non scorda chi sei. Ognuno declinato a suo modo dentro alla propria vita che da Amazzone si accarezza con amore sincero. Singoli tasselli di un mondo estraneo ed affascinante in grado di restituire agli occhi d’amazzone un mosaico di pure armonie che trasformano la carne maschia in euritmico tutto. Capita la ricchezza che questo universo ha portato al suo mondo, l’Amazzone si sporge un poco nel paniere del gender e occupa con il suo piede anche un’altra posizione, lo fa in modo nascosto per non farsi accorgere, ma è ben determinata a non farselo portare via fintanto che l’uomo come lei lo ha visto non verrà a pretenderlo per se medesimo.

mastectomia

Ieri la vita e’ cambiata. Era un appuntamento fissato da tempo e, come tutti gli appuntamenti, anch’esso e’ stato preceduto dai preparativi. Io ho comprato abiti e scarpe per il dopodomani; li ho acquistati in massa! E’ stato un rito di vita a controbilanciare il profondo lutto per il mio seno sinistro sacrificato al cancro. Per giorni ho cercato di vedermi donna senza la parte più intima e più esteriore della mia femminilità. Continuavo a pensare alla grande gioia che in passato ho provato guardando il mio piccolo succhiarvi il suo pasto. Quel seno che sovrastava la mia creatura nell’ intimo contatto tra capezzolo e bocca e’ una delle immagini più forti che serbo incarnata nel corpo. A tutto questo il destino mi chiedeva di rinunciare. La mammella che ha dato la vita a mio figlio ora doveva dare la vita per me, tagliata e sradicata. L’ho pianta per un’intera notte. E lei ha compiuto il suo ultimo atto d’amore spingendomi oltre l’operazione, oltre il cancro, oltre il dolore. Si e’ sgretolata sparendo dai miei pensieri. Il mattino seguente mi sono svegliata investita da una profonda calma, intoccabile da qualsiasi paura o dolore. Nulla durante l’operazione mi ha smosso dal senso di me già oltre. Ora io, donna, sono là senza mammella e con tutta la vita da vivere. Questa e’ l’eredità lasciata dal mio seno sinistro.

La donna ed il Tempo

Lei lo aveva sedotto senza volerlo. Un giorno, chiacchierando amabilmente, lui si accorse che nelle parole di lei mancava ciò che sempre c’era in quelle degli altri. Si innamorò perdutamente di questa assenza e da allora vivono fianco a fianco come sposi. Lei non si accorse subito di questo matrimonio, lo scoprì un giorno quando si rese conto che i suoi occhi sapevano vedere oltre. Dapprima si sentì potente, oltreumana, ma poi capì che era solo un regalo di colui che da anni viveva con lei, divenuto, così, suo unico sposo. Lei andò da lui e gli chiese: “Tempo perché mi hai sposata?” e lui le rispose: “Perché, tra tutti, tu non hai mai avuto paura di me. Sei venuta da me portata dai tuoi vivaci occhi marroni che molto chiedevano, ma nulla temevano ed io ho deciso di rimanere al fianco di quell’unica piccola creatura che voleva sapere senza temere. Mi sono fermato con te per respirare la tua libertà e per vedere dove mi avrebbe portato. Sai, millenni di paure e di lagne su come evitare la morte oppure vincerla mi hanno reciso l’anima e fatto schiavo della vostra umanità. Ho voluto sposare colei che non considera “la vita una scialuppa cui aggrapparsi durante un naufragio” per dirla con parole umane.” Lei tacque perché scoprire di essere spostata al Tempo e contemporaneamente rendersi conto di quale libertà riempiva la sua vita, fu un trauma. Sì, lei dovette venire a patti con questo matrimonio scomodo che le aveva dato in sposo non la carne, ma l’eterno; colui che per padre ha il Cielo e per madre la Terra; colui che generò sei figli e li mangiò tutti, eccetto uno che divenne Dio dell’Olimpo dopo aver battuto suo padre facendogli anche vomitare i figli dapprima mangiati. Ma non si scompose per queste notizie perché lei di lui accarezzava il sublime ed il terribile. Per questo non era scappata una volta conosciuto e gli aveva permesso di diventare il suo sposo. Fece molta più fatica con la seconda parte della scoperta; prendere coscienza dell’infinita propria libertà era scioccante perché la paura è un porto sicuro cui riparare e rendersi conto di non avere paure durante le tempeste della vita può al momento far cedere le ginocchia. Lei sussultò solo per un istante perché poi tornò a godere della grande calma legata alla sicurezza incastrata nella gioia che la libertà le dava. Il tempo le disse: “Vedi è questo che intendo, tu mi sei compagna perché non sai cosa sia il limite. Sei mia pari; unica in millenni. Per questo come suggello di nozze ho voluto regalarti ciò che agli umani è di solito celato. Ti ho donato la capacità di vedere negli altri ciò che è già stato.” Lei allora rispose al Tempo: “Grazie, mio diletto, anch’io voglio farti un dono, ti regalo ogni istante che fermo e dilato nel tuo continuo scorrere per assaporare la felicità umana e non dimenticarla; ti regalo l’amore mortale che unisce gli individui e li fonde in un attimo eterno di perfetta bellezza dentro alla vita che poi va. Ti faccio assieme una promessa, mio diletto: di te non perderò un instante perché è meraviglioso dormire con l’eterno e svegliarsi nel quotidiano.” A queste parole il Tempo nuovamente sedotto sorrise appagato.