Attrazione

Ecco succedeva di nuovo. Momento terribile. Tomba della tranquillita’. Annuncitore di schiavitu’. Quante volte si era incoronato imperatore della sua vita? Lo odiava. No, lo desiderava. No, lo odiava. Solo poteva cio’ che null’altro riusciva. Si presentava sotto mille forme, ma Lei lo sapeva sempre uguale. Attimo di natura eterna. Unico dio della sua vita. L’aveva obbligata a girarsi. Le aveva imposto una stretta di mano. Aveva fatto propria una parola mal data. Era stato dentro a uno sguardo. Aveva abitato un sorriso; ora ancora possedeva due occhi sopra una scala a levarle la testa. Tiranno, odioso tiranno. Albero della conoscenza. La nuova battaglia tra schiavi era iniziata. Non di nuovo, no. No, non smettere mai. Non di nuovo, no. Ma l’attimo aveva ancora una volta inciso la sua carne; non c’era ritorno. Quanti segni portava? Quanti segni l’avrebbero ancora marcata? Questo non era diverso dagli altri. Un rinculo nello stomaco, oracolo veggente del futuro monotamente noto eppur sorprendentemente da scoprire. Ora toccava semplicemente trasformare in vita quell’ imperativo binomio. A volte accadeva, a volte no. Ma il sigillo sempre ne usciva trionfatore. Ecco succedeva di nuovo.

Addio

Rigava e tornava a rigare quella giovane guancia una goccia, gemma di puro dolore, trasparente e pura, gioiello e suggello dell’amore che tutto chiede e tutto dà. Lui, forte e muscoloso, tagliato per lo sport e la fatica, uomo che tutto parlava di potenza e virilità quella mattina e quel pomeriggio e poi ancora quella sera era crollato schiacciato dal peso di una lacrima che non si fermava: lei era partita lasciandolo dietro all’impenetrabile nastro dell’aeroporto di Malpensa, quello di fianco alle scale che salgono ai ristoranti. Si erano stretti forte, aggrappati agli ultimi momenti del loro amore fisico, ancora incapaci di lasciarsi andare alla memoria. Poi lei aveva attraversato l’oceano con un battito d’ali lasciando lui incollato al pavimento, impietrito, incapace di altro se non di cercarla con l’occhio oltre le divise del personale di terra, oltre l’orizzonte. Traccia di lei quella goccia a solcare il suo volto ed una promessa. Sì, certo si sarebbero rivisti: il loro viaggio assieme era solo all’inizio; sì certo avevano ognuno mille cose da fare: università da frequentare, risultati da ottenere, mondi da scoprire; sì certo…, ma ora sopravviveva solo quella stilla bagnata, esplosione vulcanica di vuoto, big ben del nulla da vincere, paralisi eterna. A poco serviva la sua forza fisica, a nulla la sua potenza ed i suoi muscoli, inutile la sua umanità. Il pianto era invincibile. Allora lui lasciò scorrere le sue lacrime chiedendo a lei di raccoglierle nella memoria a testimone del suo amore grande e lei lo sentì e le raccolse. Lui si addormentò mentre lei guardava le sue lacrime sorridendo innamorata. E’ così che il tempo tornò a scorrere, l’universo a vivere e lui a respirare. E’ così che lui vinse se stesso.

Blade Runner

E le immagini erano esplose nell’aria e prima non c’erano e poi c’erano e Lei non era più sola nel cielo e neanche nella città e nemmeno sui tetti e poi aveva riso perché non era più sola e le immagini erano grandi e erano anche silenziose e prima non c’erano e poi c’erano e Lei sapeva che sotto alle immagini c’erano persone ma non le importava perché ora non era più sola aveva le immagini che erano grandi e anche silenziose e il cielo era buio nero città che è il buio nero chiaro non il buio nero scuro della campagna e adesso la città era diventata Blade Runner e Lei da sempre voleva entrarci dentro ma non per i robot che non le piacevano e neanche per le pistole che erano fredde voleva le immagini che esplodevano ovunque e entrare nella foto famosa che era bellissima per tutti gli altri ma che a Lei non diceva niente e giù nella strada c’era la gente che vociava e non si vedeva e neanche si sentiva però si sapeva che c’era la gente e si sapeva e basta e anche la gente giù nella strada era dentro a Blade Runner ma non lo vedeva perché anche se alzava il collo era troppo bassa mentre Lei non era alta ma stava sul tetto e aveva visto l’immagine esplodere e si era alzata così era diventa ancora più alta e era entrata in Blade Runner ma adesso le immagini si erano spente e anche le persone sotto alle immagini e quelle giù nella strada erano sparite e Lei era rimasta sola sui tetti e la città era diventata un lungo piatto suono giallo su uno schermo nero zzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzz. punto.

Sorrisi

La vetrata fissa, la seduta continua tra i pilastri, due tavolini, due sedie frontali, un wifi. Sui tavolini quattro computer che litigano lo spazio con libri, piatti, tazze e bicchieri. Sulla panca due uomini, sulle sedie due donne. Due a due. In mezzo il vuoto. Questo e’ il centro del mondo. Qui avviene tutto. Contemporaneamente. A sinistra le spremute ascoltano quello che sembra essere un incontro di lavoro. Le possibili scelte, la loro convenieza occupano lo spazio tra le due bocche. I sospesi seguono le strategie. A turno le idee vengono messe sul piatto, accolte o eliminate come bocconi assaggiati. Universi che si incontrano o scontrano. Viaggi paralleli verso la meta comune. Sopra al tavolino il gran parlare satura l’aria. Un movimento di andata e ritorno. Frenesia di idee. A destra lui la guarda e si sospende. Non riesce a fare altro. Un minuto, due minuti, tre. Il tempo va ma gli occhi si fermano negli occhi. E lei anche. Un doppio sguardo timido e saldo dato e restituito. Incredulo e ancora timido. Lui alza la mano e le accarezza la guancia. Trema e non pronuncia parola. Le sue dita sono fragili pennelli che abbozzano pensieri. Lei e’ immobile e ancora non gira parola. Si sorridono. Silenzio. L’emozione inzuppa l’aria ed il respiro inciampa. I toast freddi stanno sul tavolino obliati. I computers pure. Il silenzio avvolge lo sguardo sospeso mentre due dita continuano ad accarezzale il viso.
Tutto intorno i libri guardano sicuri.
Loro sanno.

Amici di università

Ed eccomi a Barcelona!
Sono atterrata in un ricordo. Uno dei piu’ cari che conservo: il tempo dell’Erasmus.
Oggi e’ cosa normale passare un anno di universita’ all’estero, ma il mio anno ne e’ stato pioniere: il secondo gruppo in assoluto a partire con tanto di borsa di studio a coprire tutte le spese.
Perche’ questa citta’? Potrei dire perche’ qui c’era una delle scuole di architettura piu’ vitali del momento oppure perche’ era una citta’ incredibile, ma in reata’ i motivi sono piu’ banali: perche’ qui si parla spagnolo, ( anche se poi ho scoperto che invece si parla catalano), perche’ e’ vicina a Tarragona e perche’ mi hanno presa!
Partita io, a cascata ci sono passati tutti i compagni piu’ cari, tanto che Barcelona e’ diventata il nostro comune denominatore assieme agli anni spesi tra libri, rilievi e progetti.
Cosi’ abbiamo deciso di tornare tutti assieme a darle una sbirciatina, come si fa con una cara amica che non ha segreti per te, ma che non vedi da anni e sei curioso di sapere cos’e’ diventata o com’e’ cambiata.
Il reata’ anche noi amici non ci vedevamo da un po’, cosi’ la visita si e’ trasformata da ricordo in attualita’. Barcelona e’ diventata lo scenario del noi adulti, del noi risolti; non piu’ pendenti dal futuro prossimo, ma proprietari del presente fatto di carriere, famiglia, vita filtrata da cio’ che e’ stato.
E’ con questi occhi che abbiamo girato la citta’; sempre con il naso all’in su’ per scoprire come il tempo ha trattato quella finestra, quel muro ritorto o quell’aggetto che tanto ci aveva esaltato negli anni della sua, e della nostra, giovinezza.
E lei e’ come noi. Consolidata dal tempo, migliorata per il nuovo venuto, con un po’ di rughe per cio’ che fatica ad inserirsi nell’oggi. Diversa, ma in fondo sempre se stessa. Modernista, contemporanea ed antica, con una luce brillante ed il cielo color blu cobalto.
L’abbiamo morsa a pezzetti, perche’ non avevamo necessita’ di conquistarla. Lei era gia’ nostra.
Una visita all’ospedale S. Pau, ai tempi ospedale funzionante impenetrabile, oggi esempio di Architettura modernista catalana non meno degna delle opere di Gaudi’; una visita al museo nazionale d’arte catalana che nessuno di noi aveva mai visto, chissa’ come mai; una passeggiata tra le nuove architetture che hanno saziato gli occhi ormai esperti di forme; e poi i nostri luoghi preferiti, a volte intatti, a volte usurati, a volte scomparsi.
E’ stato bello rincontrarti Bella Signora sempre aperta al nuovo che viene senza rimpianti ed e’ stato bello rincontrarvi Amici del Cuore, diversi, ma uguali.
Siete diventati la miglior espressione del vostro futuro di gioventu’.

Univeristà

Era stata colpa delle iniziali dei loro cognomi. Tutte stavano in fondo all’alfabeto. Quella fu la causa del loro incontro; non fu la passione ad unirli, non la scelta universitaria; semplicemente due S e una V.
In mezzo a quattromila matricole, loro tre si erano seduti uno a fianco all’altro in quell’aula ai pre corsi di matematica. Lei in mezzo e loro due uno di qui e uno di là. Mentre la lavagna si riempiva di numeri per rendere semplice qualcosa che per le loro menti creative semplice non era, si erano piaciuti non solo come persone; avevano capito di essere simili per passioni e scelte.
Attrazione fatale quando hai diciannove anni.
Ogni mattina arrivati in aula si cercavano con gli occhi; il primo teneva il posto per gli altri per evitare di dover seguire la lezione seduti sulle scale o peggio in fondo in piedi. Ogni mattina i loro occhi si agganciavano, loro si salutavano, si sedevano fianco a fianco e tutto iniziava.
Venne il momento della scelta delle materie perché ai tempi in università ancora libero arbitrio e autonomia personale erano sovrani; così, a parte matematica dove per lettera del cognome ti veniva assegnato il professore, tutti gli altri esami erano liberi. Sette erano i corsi da seguire; sette le scelte da fare.
Per loro quasi non fu necessario mettersi d’accordo su quali corsi e con quali professori intrattenersi durante il primo anno; tutti e tre scelsero in autonomia praticamente le stesse lezioni.
Erano diventati compagni di studio.
Da allora per i successivi cinque anni si aiutarono in ogni modo possibile per portare a termine i vari progetti assegnati e passare gli esami.
Non rimasero in tre a lungo perché durante la prima lezione del corso di storia dell’architettura, davanti a lei si sedette un ragazzo basso e bruno; lei lo chiamò oppure lui si girò autonomamente, questo è perso nella memoria, ma da tre divennero definitivamente quattro due S una V e una C.
Furono anni divertenti, faticosi ed appassionati. Il ricordo di alcune giornate e soprattutto nottate di studio rimane impresso nella memoria. Nel pensionato dove le ragazze non erano ammesse oltre una certa ora, ma lei ci passò con loro notti intere per finire di disegnare; a casa ad Abbiategrasso dove la mamma, a fine giornata, cucinava la carne impanata più buona del mondo e la vita era bella; in giro per le città a rilevare chissà che cosa per conto dei professori sotto al sole cocente o la pioggia cadente; infine in Spagna dove assieme o in staffetta si formarono professionalmente. Arrivarono tutti alla laurea; tutti dottori in Architettura e poi Architetti.
Persona e sostantivo iniziarono a coincidere.
Quella divenne la loro vita.
Questo succedeva trentasei anni fa, ma dentro di loro è successo solo ieri. In questa giornata lunga quasi quarant’anni la vita è scorsa portando figli, gioie, soddisfazioni, dolori e difficoltà. Alcuni di loro rimasero presenti uno nella vita dell’altro, altri no si persero nei propri affanni, ma non importa perché in fondo è passato solo un giorno. Ora come allora loro ci sono uno per l’altro qualsiasi cosa il futuro riservi.

Crisi

Era un sonno rotondo ed abbondante, di quelli che quando ti svegli ti senti come se potresti conquistare il mondo; un sonno tanto bello che decidi di protrarlo un poco e allora ti giri sul fianco pronta a scivolare ancora più a fondo in tanta calma. Come è bella la vita! Qualcosa però succede ed invece di continuare a provare tanta tranquillità, mentre ti giri, la testa inizia a girare e vibrare e tu cadi senza muoverti provando una tal paura da svegliarti e non capire se sei viva o morta. No, non sei morta, sai chi sei; sei viva ma se ti muovi il mondo gira a spirale tanto forte da farti vomitare. Ma che hai fatto ieri sera? Non hai fatto nulla; certo tu non ti ubriachi, non ricordi? Non eccedi; quindi questa non è una sballa, stai male sul serio! Panico? No meglio di no non serve. Chiamare aiuto? Mossa più intelligente. Forza chiama l’amica che ti abita più vicino. Trovare il cellulare in quella bolgia infernale che non si ferma è un’impresa, ma ecco la voce amica e allora hai un po’ meno paura perché solo sentire tal voce cara mette un punto fisso a tutto quel girare. Lei, che ti conosce bene, capisce che bisogna correre: tutti quei giri non sono normali. Mentre lei si veste e si fionda su un taxi senza mai smettere ti parlarti, tu strisci alla porta di casa per riuscire ad aprirla prima di svenire. Non svieni tu, ma il cellulare sì. L’amica arriva e quel tuo nuovo mondo non più stabile ti fa ancor meno paura perché c’è lei. Inizia la ricerca spasmodica di un medico, il tuo medico di base, il suo, il chirurgo che ti ha appena operata, l’oncologa, la guardia medica, nulla la sanità non è disponibile, nessuno risponde rimane solo l’opzione ambulanza. Chiamiamo un’ambulanza? No, sì, no, sì. Ok, avviso i miei genitori. “Mamma, sto mal….” “aspetta che abbasso la radio”. “Ecco, dimmi” “Mamma, sto mal….” “ aspetta che ti passo papà” …stai morendo e tua madre ti mette in attesa non una, ma ben due volte?… non resta che piangere… ma invece di piangere inizia ridere a crepapelle insieme all’amica che ha sentito tutto e ti guarda incredula… e così torna la calma del sonno rotondo ed abbondante, mentre i secondi passano e quella risata sincrona non smette, ma diventa sempre più forte da scecherarti più della testa che gira. No non stai morendo, se sei in grado di ridere così; l’ambulanza non serve possiamo cercare un medico con calma. Che potere hanno le mamme! Sanno sempre cosa fare per salvarti la vita e tirarti fuori dai guai….

L’angelo dell’Amore

L’aveva incontrato solo una volta; Lui era intento a fare ciò che doveva fare curvo sul suo lavoro quotidiano senza badare a chi o cosa gli stesse passando accanto. Anche Lei era intenta nella sua vita e passò a fianco a quel giovane uomo accoccolato con la leggerezza della giovinezza. Solo una volta oltrepassato Lei lo sentì. Era come una forza che imponeva al suo corpo di voltarsi; si arrese e si voltò proprio mentre lui alzava gli occhi nella sua direzione. Si guardarono senza vedersi veramente; uno sguardo che parlava più ad ognuno di se stesso che dell’altro. Lei ne rimase sconvolta. Non si era solo girata, gli aveva regalato la sua anima e quasi certamente il suo corpo.

Poi era capitato di incontrarsi e scambiare anche qualche parola, ma un senso di bizzarro era cresciuto in Lei perché, essendo estranei, si parlavano da estranei, ma, dentro di sé, Lei non riusciva a percepire la differenza tra il proprio corpo e quello di Lui. Era come se la realtà scomparisse per lasciare emergere un mondo fatto solo di loro due. Il dentro era l’opposto del fuori e Lei ci stava seduta in mezzo. Era difficilissimo. Che fare? Ci pensò la vita: troppo diversi non si incontrarono quasi più.

Ma la loro storia non finì lì. Perché smisero di incontrarsi di persona ed iniziarono a frequentarsi la notte in sogni ove non parlavano la lingua del sonno; il loro vocabolario apparteneva alla vita. Qui si incontrarono di nuovo una prima volta, ponendo molta attenzione l’uno nell’altra; si regalarono il tempo di conoscersi reciprocamente e piacersi per mille motivi, non sempre logici; chiacchierarono di mille cose senza che le differenze tra loro riuscissero a recidere ciò che era nato da uno sguardo non dato. Lui la andava a trovare presto la mattina e le si sdraiava accanto svegliandola con gentilezza; oppure la trascinava via da quel letto quando ancora non si era addormentata per portala in posti mai visti prima, ma ormai familiari ad entrambi in quel sonno vissuto.

Nel sonno si amarono fisicamente molte volte regalandosi sensazioni sconosciute o conosciute; assieme arrivarono a fondersi nel piacere senza mai sentire il desiderio di dover chiudere gli occhi perché quegli occhi erano già chiusi. C’erano solo loro due senza la vita vera; quella ove certe cose non avvengono mai. Lì tutto avveniva ed anche di più in un rincorrersi di felicità che durava semplicemente il tempo del sogno. Poi Lui volava via portato da bellissime ali bianche salutandola con un bacio senza tempo; Lei lo guardava allontanarsi con una luce nuova negli occhi.

Nella realtà, fuori dal sogno, capitò che si incontrassero ancora; sempre estranei si trattavano con una familiarità rara forse consci entrambi che nel mondo ove l’astro maggiore non è il sole la loro era un’altra storia.

Io sono coperta 1 e 2

Per almeno vent’anni la scuola le aveva fatto credere, dando la cosa per certa, che la conoscenza esistesse solo come conseguenza della fatica.
Aveva passato anni curva sui libri per il semplice gusto di imparare perché, per Lei, la strada valeva tanto quanto la meta.
Intorno ai diciotto anni però una voce dentro di lei aveva iniziato a dissentire.
La voce interiore le diceva che dentro ad ognuno già esisteva un sapere e che il viaggio in realtà sarebbe stato solamente darsi la libertà di crederci.
Ma come si fa a diciotto anni ad ascoltare una voce tanto diversa da quello che per tutta una vita le era stato insegnato e mostrato?
Come si fa a credere che ciò che fino ad allora aveva dato risultati non fosse l’unica via alla realizzazione dei propri più profondi desideri?
In realtà come si fa, così giovani, a conoscere già i propri più profondi desideri, quelli che ti rendono libera?
Non si può.
Lei, però, sentiva che certe cose erano ed altre non erano. Non c’era coscienza, c’era un’intuizione e poi un ben essere nel corpo.
Era uno spillo che pungeva ogni tanto, solo ogni tanto, e non faceva male; faceva bene.
Accadeva che per nanosecondi venisse attratta da qualcosa, bella o brutta che fosse, perché la sentiva famigliare, la sentiva sua anche se completamente estranea.
Negli anni a venire Lei imparò a rispettare quegli spilli che tanto l’attraevano, senza però, mai capirli.
Un giorno di non molti anni fa, lo spillo punse più a fondo e squarciò un velo e Lei, come un automa, acquistò una macchina da cucire, qualche stoffa, aprì un libro che aveva comprato trent’anni prima in una terra lontana spinta da quel solito senso di famigliarità sconosciuta e si mise a cucire senza saperlo fare.
Si accorse che non solo conosceva, ma ne era abile.
Era un sapere genetico; proveniente probabilmente dalla sua semplice appartenenza all’universo femminile.
Quello che lei era in grado di fare non era proprio della sua cultura, ma di quella di un popolo oltreoceano che aveva legato insolubilmente la propria storia a quei pezzi di stoffa tagliati e ricuciti. In quelle coperte c’era scritta la storia della difficoltà della sopravvivenza , della libertà dalla schiavitù, della guerra, di sedie a dondolo e porticati di legno, finanche la storia della bandiera nazionale.
Lei era estranea a tutto questo eppure sapeva fare.
Non si chiese troppi perché; rese quest’arte parte della sua vita semplicemente perché la rendeva felice. Non c’era una necessità reale, nè una motivazione politica. Cucire era solo bello e dava piacere.
Per iniziare aveva scelto di copiare un’immagine fatta di quadrati e triangoli, pensando che fossero figure semplici poi con il tempo aveva scoperto che quei triangoli avevano un nome “Flying Geese” e che il cucirli richiedeva dei trucchetti che chissà come a lei venivano facili. Li assemblava in blocchi che poi avrebbero dato forma ad una coperta matrimoniale.
Quei triangoli assomigliavano effettivamente ad uno stormo di oche in volo e decisamente avevano il potere di mostrare una direzione; infatti, in passato, coperte cucite a Flying Geese venivano appese sui portici delle case per indicare la direzione a chi scappava dagli stati schiavisti verso il libero Canada, attraverso la così chiamata “underground railroad” oppure più semplicemente per indicare loro la presenza di cibo ed acqua oppure di un rifugio sicuro.
Sarebbe riuscita anche lei a cucire significati?
Nel giro di due anni cucì cinquanta blocchi.
Guardandoli tutti assieme per trovare un’idea di come assemblarli in coperta si accorse che sì in ognuno di essi c’era un significato. Ognuno di loro raccontava un pezzo della sua anima espresso in colore. Le stoffe assemblate le restituivano il tempo trascorso nella scelta degli abbinamenti che Lei aveva fatto in base a mille sfaccettature della sua vita, dai colori della terra che nutriva la sua esistenza all’espressione della Singolarità per la quale Lei ora era, passando per il ricordo della nonna materna.
Anche le sue oche avevano volato verso la libertà nascosta dentro al lasciare un profondo desiderio, o forse una necessità, venire a galla e l’avevano fatta atterrare nel mondo della tecnica del cucire attraverso la conoscenza di sé resa in colori.
Decise di allontanare il più possibile i blocchi l’uno dall’altro per non mischiarne i significati, scelse il bianco come campo neutro e poiché cinquanta blocchi sono tanti ne fece due coperte , una invernale ed una estiva.
Una disegnava la sua essenza a partire dalla singolarità che dava significato al suo essere umano intorno alla quale c’era poi tutta lei; l’altra erano tanti quadri appesi a mostrare il suo muoversi, a volte camaleontico, nel mondo delle relazioni con gli altri esseri umani.
Diede un nome a quel lavoro che chiamò: “io sono coperta 1 e 2” oppure nell’altra lingua: “me, myself quilt 1 and 2”.
Cucì dieci metri lineari di stoffa per cinque. Il pavimento del suo soggiorno quasi non li conteneva.

A cena da zia Daniela

Piace a tutti andare a cena in quella casa arroccata sui tetti di piazza del Carmine. Nessuno risponde mai al citofono numero tredici, ma il portone magicamente si apre sempre. Entrare in quel civico richiede un certo coraggio urbano data l’assenza di marciapiede e le rotaie del Due a cinquanta centimetri dal muro… quanto spesso, però, le esperienze speciali si nascondono dietro ad un rischio iniziale…
Aperta la porta e salvata la vita ti ritrovi nell’androne d’epoca, elegante, ma non prezioso; devi allora: passare un cancello in ferro battuto, spingere una porta a vetri pesantissima con tutte e due le mani sulla maniglia in ottone, incastrarti nell’angusto vano scala, salire su un ascensore in legno cigolante e fare un ultimo piano a piedi sulla scalinata di pietra, prima di ritrovarti all’ingresso di un’esperienza rara fatta di bello, calore, eleganza e quel pizzico di pazzia che in fondo caratterizza ogni genialità umana.
La porta di casa si apre contro un muro di mattoni a vista vecchio quanto l’edificio e devi scegliere: “di qui o di là?” Di là finisci nel niente, di qui si apre la meraviglia. Un open space sotto a travi di legno sorrette ed abbracciate da sorelle metalliche. Un ambiente bucato da aperture che ti spingono ad indovinare Milano attraverso ciò che si trova sopra i venti metri d’altezza. I grattacieli e le guglie delle chiese ti appaiono attraverso una foresta di verde quasi tropicale dalla quale cadono palle di Natale, appese ad adornare non un periodo, ma una veduta.
La città è un quadro alla parete in questo luogo dove pranzi e cene si trasformano in un’esperienza estetica sicuramente cara ai dandy di fine ottocento, ma sconosciuta a uomini e donne del duemila.
Questo è il biglietto da visita degli inviti a casa di zia Daniela; mia zia, ma anche la zia di mia sorella, di mio figlio, dei miei nipoti, di mio cognato, delle mie amiche, dei miei cucini, dei loro figli ed ormai, credo, zia anche per le sue sorelle.
Non si mangia mai seduti su sedie, ma accomodati in poltrone che circondano il tavolo di legno rotondo, tra la calce bianca del cavedio e il Corian rosa della cucina; oppure per traverso nel centro del soggiorno sul tavolo di cristallo con le ruote tra libri e sculture.
Le mense non sono coperte da tovaglie, ma solo in parte nascoste da teli o elementi di legno o di metallo sopra i quali è apparecchiata la tavola, un universo di oggetti da scoprire tra una portata e l’altra.
Tutti noi ormai l’abbiamo come abitudine, che in realtà è più un vizio ed un vezzo, di chiamare la zia ed autoinvitarci a mangiare da lei. Ci andiamo alla spicciola, perché queste sono serate, o mezzogiorni, che vuoi tenerti per te: un poco come quando ti chiudi la porta alle spalle, lasci il tempo fuori e ti permetti un lungo rilassante bagno con candele accese, profumi intensi e creme vellutate.
Il vino non manca mai e le portate hanno sempre una storia che le accompagna che non nasce dai vapori dell’alcool, ma da una vita vissuta intensamente dove idee, sogni ed accadimenti hanno creato una miscela di Bello le cui tracce sono tutte lì nell’appartamento della zia a mostrare se stesse dentro agli oggetti ed ai ricordi.
Il Bello in questo luogo lo respiri assieme all’aria e lui, che è strabordante ed invasivo di carattere, occupa tutto ciò che qui accade e chiunque qui vi si trovi. Diventano belle le persone da esso nutrite e siccome il bello è anche molto rilassante, ognuno riesce a lasciarsi andare, aiutato dalle vecchie poltrone usate al punto giusto da essere estremamente comode, e si ritrova a vivere una parte di sé difficile da sentire presi dal vivere quotidiano.
L’ultima portata, che è sempre un dolcetto regalo di amici passati prima alla mensa di zia, non ti lascia pesante per il pasto mangiato, ma leggero per il tempo trascorso immerso in questo miscuglio di oggetti e colori che ti ha appena insegnato cosa sia l’armonia e la pace che da esso deriva quando te lo trovi apparecchiato su un tavolo.
Vi consiglio se vi capitasse di passare per piazza del Carmine, cercate mia zia Daniela, portate un dolcetto e chiedete un posto alla sua tavola, ne avrete in ricambio l’esperienza del Bello.