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Non uccidete la madre

Una futura regina al suo terzo figlio che a tre ore dal parto appare al mondo fresca come una rosa, bellissima nella sua perfezione di donna regale, ma cancellata nella sua fatica di donna che genera vita.
La compagna di un rapper che, a un mese dal parto, viene esaltata da voce di donna perché nel suo corpo non mostra già più alcun segno della maternità appena conclusa.
Due parti famosi. Due maternità uccise. Sacrificio umano al Dio politically correct.
In termini assoluti non è grave perché due e’ un numero tendente a zero se comparato alla quantità di femminile che popola il mondo.
E forse non è nemmeno grave perché ogni sacrificio ha in sè la potenza stravolgente dell’oggetto sacrificale che prende forza dalla propria esecuzione per divenire valore assoluto dentro al martirio.
Come l’altare a forma di bocca fagocitante mangiava vergini bruciandole nella sua saliva lavica per tenere buono il Dio vulcano. Così il palcoscenico moderno sbianchetta l’imperfezione della madre che genera vita, per esaltare la perfezione della donna che non ha generato.
La regola tribale, con radici nella paura e fiori nella volontà di sopravvivenza comune, vive ancora fiorente nel mondo contemporaneo non più in grado di sostenere la visione della vita che deforma la vita per vivere.
Il parto proietta infatti la donna dritta nel mondo della fatica che diventa elemento strutturante del suo corpo e della sua vita.
È la fatica che, negando la donna, fa nascere la madre e le permette di assolvere il proprio ruolo privato di accudimento. Il passaggio da donna a madre è un dare la vita nei due significati di sacrificare sé e generare altro da sé.
Questa è la maternità dentro alla quale l’essere umano si sviluppa. Questo è il significato di mamma.
Ogni madre nella maternità rivuole poi indietro la donna che sa di essere stata aprendo la strada al più grande miracolo che l’umano sia in grado di fare. Ella infatti, nel tempo, riesce a mondarsi dalla fatica e a riappropriarsi di tutta se stessa; ed è permettendo a se stessa di tornare donna che regala la libertà di Essere al propria progenie.
La donna che sacrifica se stessa per dare la vita, autorizzandosi a generare fino nel profondo del significato crea un nuovo umano e si rinnova donna arricchita dall’essere anche madre.
Ma questo e’ un processo che richiede anni. La madre deve potersi esprimere come madre ed essere riconosciuta tale dal mondo esterno affinché possa, ella stessa, esistere madre nell’intimità.
La società dovrebbe così farsi uomo e saper proteggere questo passaggio che si esprime in un corpo deformato, nella stanchezza cronica, nel ripiegamento totale verso la nuova vita; nell’incapacità di essere lavoratrice a tempo pieno.
La società dovrebbe cullare la madre, che ha ucciso la donna sapendo che col tempo genererà vita altrui tornando a se stessa donna.
Ma questo è un valore esplosivo come un vulcano e fa paura perché non controllabile e così il mondo contemporaneo ha spolverato di nuovo l’altare. Vi imola madri esaltandole donne, ma così facendo toglie all’umanità le mamme e alle donne la completezza.
Genitore 1, genitore 2. Punto.

L’Amazzone

Lei era un Amazzone, ma non del tipo vecchio; non era una donna guerriera senza un seno, o con un grande seno, a seconda del significato che si vuole dare alla A. Lei era un’amazzone moderna, nata per colmare di significato il vaso vuoto del gender, categorizzazione dell’umana natura di recente invenzione, scritta a tavolino per sostituire definitivamente l’uomo proletario, quello maschio puzzone e guerriero, con una serie di declinazioni pseudo-femminili più mansuete e rassicuranti per l’establishment, ma devastanti nei confronti della essere umano.  Mentre l’uomo moderno decideva se soccombere a questo destino tracciato oppure mostrare gli attributi e restituire all’umanità e alla civiltà il valore del maschio, lei si era presa per decisione uno dei posti disponibili nel grande paniere del gender. Lo aveva fatto anche per una secondo motivo molto più frivolo: era stufa di dividere i bagni pubblici con la categoria handicap e finire con il farsela nei pantaloni, a causa del wc troppo alto, ogni volta che le scappava pipì e non riusciva a trattenerla fino al bagno di casa. Quindi forse il suo fine ultimo, in fondo, era solo ottenere un gabinetto pubblico dedicato. Quello che è certo è che lei non scelse di divenire un’amazzone, semplicemente le capitò. Lei che adorava il suo essere donna, con quel corpo imperfetto, ma armonioso, e quei sensi oltremodo sensibili, ma altrettanto coriacei, si trovò trasformata in Amazzone. Dovete sapere che prodotto dell’età moderna, oltre al gender e al politically correct è anche il cancro; ma mentre i primi due sono schemi culturali, il terzo è uno stato umano. I primi due sono imposti da fuori, c’è, per ora, ancora un margine di scelta; il terzo avviene, te lo becchi e ci fai i conti senza scelta. Per diventare Amazzone deve venirti un cancro al seno, non un cancrino, che spaventa da morire, ma lascia pochi segni; uno devastante, aggressivo ed esplosivo che impone le sue regole e non gliene frega niente se sei spaventata oppure no. Il cancro al seno sta al divenire Amazzone oggi, come i riti di iniziazione stavano al divenire Uomo tempo fa. È un’iniziazione fatta di avvenimenti sequenziali ai quali devi sopravvivere. Primo: la perdita momentanea dei simboli esterni del tuo essere donna con la caduta dei capelli e l’annerimento delle unghie; serve a destabilizzare tutte le tue sicurezze in relazione a chi sei tu rispetto agli altri. Secondo: la perdita momentanea della dignità del vivere con la disintegrazione fisica che ti annienta sdraiata su un letto; serve a tarare la tua forza di volontà e la tua voglia di vita. Terzo: la perdita definitiva del tuo intimo potenziale di madre con la distruzione del ciclo mestruale; serve ad insegnarti l’accettazione incondizionata dell’imprevisto. Quarto: la perdita definitiva di parte della tua femminilità esteriore con il sacrificio alla vita della mammella, se sei fortunata, delle mammelle, se non lo sei; serve a trasformarti in qualcosa di fisicamente diverso.  Poi però, se passi attraverso a tutto ciò senza perderti nel mondo nero della paura e della rinuncia che porta alla morte diventi, per merito, un’Amazzone e puoi chiedere a gran voce e per diritto, il tuo bagno pubblico dedicato, oltre che mettere la tua stanghettina nella lista gender sotto la voce: tipologia Amazzone. Quale delle due A descrive l’Amazzone moderna iniziata dal cancro? Decisamente non la privativa, ma la rafforzativa. Infatti le Amazzoni di oggi sono dotate di grandi seni primo perché la mutua passa anche la chirurgia estetica ricostruttiva e quindi perché no; secondo perché tale violenta iniziazione non può che presupporre uno stato di profonda trasformazione in senso rafforzativo; non a caso si parla di sopravvivenza a cinque anni, mica di guarigione. Non più, allora, le donne guerriere di un tempo, ma le donne donne donne di oggi; donne periodico se lo vogliamo esprimere in termini matematici. Così, a parte infinocchiare gli strateghi della nuova società occupando un posto destinato a creature più mansuete e gestibili, le Amazzoni vivono, prescelte, lo stato di “conclusione”, o meglio: “di conclusione sommata a tutti i suoi sinonimi come elencati nelle enciclopedie: compimento, deduzione logica, risultato, realizzazione, definizione ”. Vedono ogni declinazione della vita in modo diverso; di essa percepiscono l’aspetto unitario, quello che porta perfezione e bellezza. Un’Amazzone appena nata, magari ancora sdraiata nel letto di un ospedale, vede, per esempio, il mondo maschile che nel corso della sua vita di semplice donna le si è sviluppato attorno tornarle indietro nella sua forma più pura. Sta tutto lì davanti ai suoi occhi; imperfetto come il vivere lo ha reso, ma incontaminato come l’attimo che l’ha generato. Solo l’Amazzone è in grado di percepire, in un istante, la meravigliosa complessità e perfezione di quel mondo estraneo che per anni era parso più ostile che amico; quasi inferiore per capacità dimostrate.  In un istante lo tocca, unico e vario, e sente come ormai superato il suo essere discordante. In un attimo secondo è in grado di vedere risolta in sublime unità ogni particolare singolarità che è stata presente nella sua vita.   C’è l’amore paterno che come un’ombra si stende e protegge, sempre presente, incondizionatamente, un passo indietro, ma mai di spalle. C’è l’amore filiale, tremulo e spaventato, che ancora ha bisogno di vedere per rassicurarsi. C’è il matrimonio spezzato che mostra il vero significato della sua indissolubilità attraverso domande che pretendono per risposte liberatorie rassicurazioni. C’è l’uomo che ti ha guardato negli occhi in mille maniere e si siede silenzioso perché ormai le parole non servono più, c’è ancora l’uomo che sorprende se stesso per un legame che ha scoperto non legare; e c’è l’uomo che non parla parole pericolose, ma che ha scritto nel corpo ogni singola lettera del suo pensiero; c’è l’uomo piantato nel suo volere cui però scappa la curiosità per un poi che non lo annienti e c’è anche l’uomo che in preda al panico nero si aggrappa là dove può, ma non scorda chi sei. Ognuno declinato a suo modo dentro alla propria vita che da Amazzone si accarezza con amore sincero. Singoli tasselli di un mondo estraneo ed affascinante in grado di restituire agli occhi d’amazzone un mosaico di pure armonie che trasformano la carne maschia in euritmico tutto. Capita la ricchezza che questo universo ha portato al suo mondo, l’Amazzone si sporge un poco nel paniere del gender e occupa con il suo piede anche un’altra posizione, lo fa in modo nascosto per non farsi accorgere, ma è ben determinata a non farselo portare via fintanto che l’uomo come lei lo ha visto non verrà a pretenderlo per se medesimo.

La donna ed il Tempo

Lei lo aveva sedotto senza volerlo. Un giorno, chiacchierando amabilmente, lui si accorse che nelle parole di lei mancava ciò che sempre c’era in quelle degli altri. Si innamorò perdutamente di questa assenza e da allora vivono fianco a fianco come sposi. Lei non si accorse subito di questo matrimonio, lo scoprì un giorno quando si rese conto che i suoi occhi sapevano vedere oltre. Dapprima si sentì potente, oltreumana, ma poi capì che era solo un regalo di colui che da anni viveva con lei, divenuto, così, suo unico sposo. Lei andò da lui e gli chiese: “Tempo perché mi hai sposata?” e lui le rispose: “Perché, tra tutti, tu non hai mai avuto paura di me. Sei venuta da me portata dai tuoi vivaci occhi marroni che molto chiedevano, ma nulla temevano ed io ho deciso di rimanere al fianco di quell’unica piccola creatura che voleva sapere senza temere. Mi sono fermato con te per respirare la tua libertà e per vedere dove mi avrebbe portato. Sai, millenni di paure e di lagne su come evitare la morte oppure vincerla mi hanno reciso l’anima e fatto schiavo della vostra umanità. Ho voluto sposare colei che non considera “la vita una scialuppa cui aggrapparsi durante un naufragio” per dirla con parole umane.” Lei tacque perché scoprire di essere spostata al Tempo e contemporaneamente rendersi conto di quale libertà riempiva la sua vita, fu un trauma. Sì, lei dovette venire a patti con questo matrimonio scomodo che le aveva dato in sposo non la carne, ma l’eterno; colui che per padre ha il Cielo e per madre la Terra; colui che generò sei figli e li mangiò tutti, eccetto uno che divenne Dio dell’Olimpo dopo aver battuto suo padre facendogli anche vomitare i figli dapprima mangiati. Ma non si scompose per queste notizie perché lei di lui accarezzava il sublime ed il terribile. Per questo non era scappata una volta conosciuto e gli aveva permesso di diventare il suo sposo. Fece molta più fatica con la seconda parte della scoperta; prendere coscienza dell’infinita propria libertà era scioccante perché la paura è un porto sicuro cui riparare e rendersi conto di non avere paure durante le tempeste della vita può al momento far cedere le ginocchia. Lei sussultò solo per un istante perché poi tornò a godere della grande calma legata alla sicurezza incastrata nella gioia che la libertà le dava. Il tempo le disse: “Vedi è questo che intendo, tu mi sei compagna perché non sai cosa sia il limite. Sei mia pari; unica in millenni. Per questo come suggello di nozze ho voluto regalarti ciò che agli umani è di solito celato. Ti ho donato la capacità di vedere negli altri ciò che è già stato.” Lei allora rispose al Tempo: “Grazie, mio diletto, anch’io voglio farti un dono, ti regalo ogni istante che fermo e dilato nel tuo continuo scorrere per assaporare la felicità umana e non dimenticarla; ti regalo l’amore mortale che unisce gli individui e li fonde in un attimo eterno di perfetta bellezza dentro alla vita che poi va. Ti faccio assieme una promessa, mio diletto: di te non perderò un instante perché è meraviglioso dormire con l’eterno e svegliarsi nel quotidiano.” A queste parole il Tempo nuovamente sedotto sorrise appagato.

Laura

Aveva trent’anni, o poco più, o poco meno. A guardarla però sembrava una ragazzina. Era entusiasmo, era azione, era sorriso. Faceva un lavoro così. Il suo pensiero, quando capitava di dover prestare aiuto in giorni dove il tempo era tanto cupo da spegnere anche la più profonda speranza, le faceva dire: “Meglio, se mi ammalo domani non dovrò lavorare!” Lei non aveva ancora venduto l’anima alla sua professione. La sua giovane età era riempita da innumerevoli distrazioni che la impegnavano in un, direi, frenetico, giringirare con l’intento di occuparsi di ogni diversivo le fosse proposto per nutrire la sua voglia di vivere. Il suo corpo non era dotato di forme perfette, ma possedeva il sole dentro, così ogni essere umano amava fermarsi vicino a lei per scaldarsi. Possedeva il fascino delle curve giovani ancora non impreziosito dalla sensualità della maturità e lei lo usava inconsciamente, come fanno le giovani donne che ancora devono scoprire la propria infinta potenza. Era amata per il suo sole e per il suo corpo. Ragazza normale eppure rara. C’era qualcosa in lei cui non era facile dare un nome, ma lei pareva totalmente inconsapevole di ciò, così non era possibile capire cosa fosse. Era una giovane donna ancora ragazza, una tra tante che riempiono le nostre strade.
Una sera la vidi ferma davanti ad un bar con il suo gin tonic in mano avvicinarsi alla band che suonava. Con i suoi modi gentili disse qualcosa all’orecchio del musicista che annuì con la testa; la band le fece spazio tra gli strumenti, lei appoggiò il gin tonic che sostituì in mano con un microfono, poi chiuse gli occhi. Piccoli istanti per creare silenzio dentro di sé e dentro ogni singola persona fosse in quel bar. Gli strumenti attaccarono, lei aprì gli occhi e la sua voce iniziò a riempire lo spazio intorno e riempito quello passò a colmare ogni singola cassa toracica per poi inondare ogni singolo cuore. Una voce nata perfetta, rotonda ed avvolgente, capace di scaldare le corde di chiunque e trascinarle in un mondo di emozioni da far tremar le gambe e obbligare a sedersi inchiodati a quei suoni. Lei, cantando, sapeva spingere una folla dentro nella musica e da lì portarla poi ad ascoltare il proprio respiro sincronizzato su note pronunciate con potenza divina. Su quel palco improvvisato era sparita la giovane donna ancora ragazza, quella tra tante che riempiono le nostre strade ed era emersa la signora della musica, donna rara nel mondo umano che col solo suono della propria voce incanta e porta ogni essere umano a godere per qualche istante della perfezione di sé dentro alla musica. Così quella notte ha dato un nome a ciò che sfuggiva. Lei era la musica che accompagna ognuno nel proprio viaggio. Per questo era amata.

Passione

Questa e’ la storia di un sentimento che non doveva diventare esperienza per non essere consumato e perso. Aveva visto troppe volte se stessa sporcata da mani inadatte che avevano preso i suoi più intimi impulsi appiattendoli in gabbie mentali a lei estranee. Ed era stanca. Sapeva, per pratica, che trasformando in realtà le proprie passioni sarebbe stata rosicchiava fino a essere resa sterile di vita. Così decise un fare diverso. Passava in macchina su quella strada da anni quando, un giorno, la sua attenzione fu attirata da un uomo che le sorrise fermo nel senso contrario. Lei per gentilezza rispose al sorriso alzando lo sguardo fin nei suoi occhi e sentì, in un istante, tutto ciò che sarebbe stato. Lo contemplò, godendo di quel colloquio viscerale che in un momento secondo era nato tra loro. Rispondeva al dialogo parlato senza badare troppo alle parole pronunciate di lui perché i suoi sensi erano tutti occupati dalla forza attrattiva appena nata tra i loro corpi. Poi fu ora di andare; mise in marcia e sparì nella foschia delle mattine di campagna con il corpo saturo di piacere incastrato in ogni singola cellula come sempre le accadeva quando una passione partiva. Si rincontrarono per giorni sempre sulla medesima strada al medesimo stop; e, per giorni, le loro molecole si infiammarono mentre i loro corpi parlavano mentre le loro bocche conversavano. La passione un giorno esplose producendo una reazione nucleare a catena dentro di loro e non fu più possibile non toccarsi. Lui la invitò. Lei allora si sporse e lo baciò appassionatamente ed a lungo. Si prese tutto quello che c’era; poi gli sorrise e gli disse: “No!”. Per la prima volta da quando lo conosceva mise attenzione nel dialogo parlato e tolse tensione ai sensi; ingranò la marcia, gli sorrise di nuovo e sparì. E’ cosi che si tenne la passione intatta e non la incastrò nella loro piccolezza umana. Infatti, da quel giorno, per molto tempo in avanti, ferma a quello stop lei visse ogni singolo stato intimo che il corpo di lui aveva generato in lei, lo fece da donna libera di essere se stessa; poi la memoria sbiadì e lei lo dimenticò, ma continuò a serbare dentro di se’ una traccia incarnata del loro desiderio.

Forza

Guardati donna e assapora la tua forza. Imperturbabile recidi di spada i respiri morti. La tua femminilità sensuale si pianta su piedi guerrieri e affonda di petto ciò che ti insozza la vita. Sputi il boccone marcio e, immobile, lo guardi cadere per terra e spiattellarsi. Poi alzi gli occhi all’orizzonte e torni dolce a te stessa. Guardati donna e assapora la tua forza.

Sederi

Questa è una storia di sederi che è avvenuta l’altra sera sotto ai miei occhi. Il sedere protagonista era un sedere giovane rotondo, sodo, rialzato e staccato. Un sedere da fossetta in fondo alla schiena per intenderci. L’altro sedere era a lui genitore. Era senza soluzione di continuità tra schiena e coscia se lo guardavi da dietro, e pure senza soluzione di continuità tra pancia e fianco se lo guardavi dal lato. Per il resto erano identici, chiunque ne avrebbe stabilito la progenie. Il sedere giovane era agghindato in un succinto costume nero, non un tanga, ma un costume sapientemente fatto per infilarsi tra le natiche e mostrarne le singole rotondità. Il sedere madre invece era coperto da una mutanda larga e alta che metteva in evidenza tutto ciò che gli anni di pastasciutte hanno reso uniformemente informe. Eppure quei due sederi erano identici. Nel sedere sformato era iscritto il sedere rotondo e staccato e se fosse stato possibile circoscrivere il sedere figlia con il sedere madre, quest’ultimo lo avrebbe ricompreso al millimetro. Mentre il sedere giovane non riusciva a stare fermo su quell’asciugamano steso; infatti era un continuo girarsi, alzarsi, camminare, e sculettare; il sedere madre si alzava solo per provata necessità mostrando a chiunque cosa significhi in fisica la fissità. Ogni tanto i due sederi si affiancavano per parlarsi; durante uno di questi dialoghi il mio occhio ha notato l’evoluzione che il tempo ha imposto al sedere attempato e non ho potuto non esprimere il fatto che anni addietro il sedere fisso sarà stato anch’egli un bel sedere rialzato e distaccato e che probabilmente tra qualche anno il bel sedere rialzato e distaccato godrà della magnifica immobilità tronchea nel corpo di donna ormai adulta. E’ il corso della storia riferito ai sederi. Ho pensato che tra quei mondi rotondi si raccogliesse infatti la distanza della fiducia totale e assoluta nel proprio futuro e la rassegnazione che quel che si ha avuto si ha avuto; dell’idea di eterna giovinezza e della consapevolezza di essere nella parabola discendente della propria vita. Tra quei due sederi però era anche scritta la rinuncia che risolve la vita in una tavola apparecchiata e le serate davanti alla televisione. In quelle due curve tonde ho letto la storia comune a molti di ciò che è stato e che sarà. Allora ho deciso di andare a sbirciare il mio sedere per vedere se racconta la medesima evoluzione. Ma sappiate, se viene voglia di farlo anche a voi, che è tabù parlare in pubblico di sederi di donne.

Fata Fuoco si è ammalata

Fata Fuoco si e’ ammalata. Ha preso un male umano. Se ne e’ accorta un giorno incendiando un campo di tulipani. Si e’ sentita pesante che quasi cadeva dal cielo. L’occhio di Fata ha allora guardato dentro il suo corpo umano ed il verdetto fu presto fatto. Quando le Fate si ammalano di mali umani la cosa rara e’ che ciò che e’ dentro di loro diventa piu’ grande. Fata Fuoco era profondamente felice incendiando quel campo rosso, giallo e marrone; si sentiva libera e bella. Tutto ciò e’ stato cosi’ ampliato dal male umano e lei ora si trova a volare piu’ potente di prima anche se ogni tanto cade dal cielo per via del male e deve con attenzione evitare di finire bruciata dal proprio fuoco. Fata Aria passando per caso di fianco a Fata Fuoco ha sentito vibrare le proprie ali e cosi’ ha capito cosa capitava all’amica. Allora Aria si e’ messa a sbuffare per spegnere il fuoco fatato e lasciare che l’amica malata potesse cadere senza bruciare. Volete sapere delle altre Fate? Valisi e’ lontana dal mondo fatato, forse si e’ persa e Fata Acqua non vola piu’ presa com’è dal suo amore umano. Fata Vulcano, che e’ la piu’ giovane, non ama vedere bruciare nel proprio fuoco la Fata malata e cosi’ reagisce ruggendo e roboando tanto forte che l’altra sera ha spento il cielo di tre città oscurandolo di lacrime nere. Le Fate più esperte, invece, sanno che il corpo umano ammalato andrà aggiustato e per quello ci vorrà tempo, loro intanto, a notte fonda, si troveranno velate e agghindate per festeggiare lo stato nuovo di Fata Fuoco che sprizza amore, bellezza e felicità in cascata tanto ne e’ piena. Quando ciò accade e’ un poco Natale nel mondo di carne perché’ ognuno riceve in regalo quell’acqua fatata e diventa un poco piu’ se’. Se tu umano vorrai poi guardare ai piedi di quella cascata ti accorgerai che un’ Ortensia e’ fiorita.

Il volo lontano

Stasera vi racconto del viaggio di Fata Acqua e Valisi, è un viaggio di fate e non ci appartiene; però a me è caduto in mano mentre scorrevo tra i libri le dita. Queste due fate, dai tratti dolci, ma volitivi si sono unite in ciò che nel mondo fatato è chiamato il Volo Lontano. Ogni essere alato lo affronta almeno una volta nella propria vita. Loro hanno deciso di farlo assieme. Si assomigliano queste due fate ed hanno destini vicini; così stanno attaccate per darsi forza. Ora dovete sapere che il Volo Lontano è impegnativo alla fate ed ucciderebbe qualsiasi mortale cercasse di farlo. Il Volo Lontano implica sentire ciò che è fuori dentro senza alcun filtro. Vi faccio un esempio: se fuori piove una fata in Viaggio Lontano non riesce più a capire se piove dentro o fuori di lei. È un esperienza difficilissima per questi esseri così speciali perché il loro mondo è un mondo vario e composto da tante estensioni così quando invece esso si appiattisce ad un’unica esperienza alle fate pare dover morire. Ma è anche fondamentale perché questo è l’unico modo per dare alle fate il potere che nasce dal viaggiare in mondi diversi. Nel Volo Lontano ogni fata deve trovare la forza con la quale cambiare il dentro uguale al fuori in quel mondo colorato e vario che in realtà le appartiene. Questa è la forza propulsiva che le permette poi di viaggiare di qua e di là tra i mondi reali. Quando una fata riesce a vincere se stessa facendo esplodere tutte quelle dimensioni che ha dentro e fuori da sé, il mondo fatato si inchina all’impresa e regala alla fata il contenitore per portare sempre con sé l’energia di tale impresa. È una semplice bacchetta di legno, a volte una stellina le adorna la punta. Sono semplici le fate anche se tanto potenti. Ecco che oggi Fata Aria e Valisi sono in viaggio a cercare la loro forza. Tutte le altre fate si tengono lontane perché è loro vietato avvicinare una fata in Viaggio Lontano, ma i loro occhi sono puntati sulle due amiche. Ogni fata sostiene l’altra guardandola, a volte semplicemente pensandola, è uno dei loro tanti poteri. Io, in realtà, credo di aver visto Fata Fuoco, Fata Aria e Astro Vulcano volare nervose attorno alla casa delle Dame Sul Lago in attesa di notizie da parte delle due Fate in viaggio. Loro aspettano che il Viaggio Lontano finisca e Fata Acqua assieme a Valisi riportino a casa le loro nuove bacchette.

Fata Terra beata

Ho incrociato per coincidenza Fata Terra. Era beata! Io mi sono un poco stupita perché Fata Terra beata non l’avevo mai vista. L’ho vista volare radente e sconquassare le viscere umane, oppure regalare fuochi vitali, l’ho pure vista volteare infuriata ed imbizzarrita arrotolando un pezzo di mondo con dentro me, ma vederla beata è veramente cosa diversa.

Avete presente la delicatezza di una piccola piuma bianca portata dal vento in una giornata di blu sereno? E riuscite a riportare nel corpo la sensazione provata nel vivere il vostro istante perfetto; quello dove tutto è al suo posto e nulla è fuori di posto? Ecco Fata Terra beata è l’insieme di queste due cose. L’ho vista gongolarsi cadendo nell’aria sopra alla foresta australiana, là nella regione del Queensland, dove la terra s’arresta di colpo mentre il controluce del tramonto brucia quell’infinito di alberi e verde. In quel luogo, a me pareva pure di sentire i pappagalli cantare tanto lei beatamente cascava. Quando si accorse della mia presenza furtiva dentro al suo mondo mi parlò. “Che fai tu qui essere umano? Questo non è il tuo posto!” Così le risposi: “Lo so Fata Terra, perdona la mia intrusione, ma ho sentito il tuo senso beato e non ho potuto non corrergli dietro e qui mi sono poi ritrovata.” “E ora cosa pensi di fare?” mi restituì. “Vorrei poterti chiedere cosa ti è accaduto da renderti così compiutamente beata” io le risposi. “E’ un segreto di fata!” mi disse guardandomi dritto da sotto ai suoi riccioli. Poi il suo viso si aprì nel sorriso di chi sa di aver combinato qualcosa e la sua voce intonò: “ Stavo facendomi un giro dentro al mio animo umano, quello che sta dentro al corpo che uso nel vostro mondo; volevo giocare a nascondino con le sue emozioni ed i suoi sentimenti. Giocando, ho stanato la rabbia più nera, rincorso l’innamoramento che brucia e portato a toppa l’amore profondo un paio di volte, ma sono stata battuta in velocità da gelosia e gratitudine perché sono incredibilmente veloci. Tu sai, vero, che le fate possono decidere di respirare dentro a se stesse ogni sfumatura dell’animo e del corpo umano? Dunque, ti stavo dicendo, finito il gioco, stanchi e sudati com’eravamo, io, emozioni e sentimenti abbiamo deciso di andare a prendere un the tutti assieme.  Bene, intanto che uscivo dal mio corpo umano, accompagnata dalla vostra parte mutevole, ho toccato per sbaglio una leva; penso che fossi dentro al cervello, ma non sono poi tanto sicura del luogo. Non ho fatto apposta, sono stata sbadata, ma ormai ciò che era fatto, era fatto; e così aspettai per vedere il danno compiuto. Ma con mio enorme stupore scoprì che la leva spostata mi rese beata. Allora mi incuriosì e volli vedere cosa era successo al mio essere umano, lasciai i miei compagni di gioco ancora intenti a bersi il the e tornai sui miei passi. La leva governava una grossa tenda ed io l’avevo per sbaglio aperta; così io, fatta umana, riuscii a vedere me fata, emozioni e sentimenti uscire da me. All’iniziò la me umana non ci badò, ma poi si rese conto che allora lei non era la rabbia, nè l’innamoramento né nessuna delle emozioni e dei sentimenti che in quel momento si stavano bevendo il the là fuori assieme a me. Nei miei panni umani, mi sentii gongolare beata nell’idea, per esempio, che io non ero amore, ma, sì, l’amore era me ed io lo potevo guardare mentre se ne stava tranquillo al bar a bere il suo the. In quel momento preciso capii che essere o non essere non è il problema, perché gli esseri umani sono e non sono congiuntamente, dormono, ma non sono il sonno, amano, ma non sono quell’amore, lavorano, ma non sono la professione e via via così. Pensato questo , la mia umanità si sentì beata e leggera. Era così bella quella sensazione che me la sono portata nel mondo fatato che tu hai trovato.” Io timidamente le chiesi cosa era successo alla sua parte umana rimasta senza emozione. Lei mi rispose: “ Lei ora sa di essere senza essere; lei sa di essere beata senza beatitudine e di non essere beatitudine quando è beata. Le ho regalato il senso d’umano.” Non mi parlò più, ma continuò a volteggiare leggera e beata su quella natura incontaminata.