Maiorca
Una palma, un ulivo, che a guardarli stare fianco a fianco un paio di domande ti vengono: ma come fa una cosa tanto ritorta a fiorire all’ombra dell’ albero piu’ impalato che esista? Uno sta aperto e cascante sotto al cielo blu mentre l’altro pare incarnare i segni di una lotta continua tra le sue corteccie ed ogni singola particella d’aria che lo circonda. Uno insensibile ai venti, l’altro forgiato dai movimenti dell’aria, piegato suo malgrado, ma non per questo meno bello all’occhio che passa. I due se ne stanno li’ al limitare della spiaggia, tra pavimento e sabbia ignari delle loro differenze. Cosi’ si e’ presentata l’isola di Maiorca questa mattina quando ho sceso la stradina fino al mare. Ora non mi resta che guardare ed ascoltare perche’ sono immersa nella bellezza.
Le mille carezze dell’infinito
Quanti infiniti ci sono?
Dipende da te!
Uno, nessuno, centomila …
Tanti quanti sono i tuoi pensieri.
Tu quanti pensieri hai?
Io ne ho alcuni.
Perché sei così interessata all’infinito?
Perché non mi basto, ma mi basto;
Allora penso che l’infinito mi si addica addosso.
Però mi piace cambiare;
così, di infiniti ne ho alcuni confezionati.
Se vuoi ti apro il mio guardaroba così li puoi vedere.
Sì, dai, ho tempo oggi.
C’è un primo infinito appeso nel mio guardaroba, non so dirvi perché ma quest’infinito e’ un mantello di nappa marrone che mi tiene calda le notti d’inverno.
E’ un infinito che in principio permeava nel nulla. Non era. Però aveva una tal voglia di vita da riuscire a formulare il primo pensiero di sé. Il desiderio di conoscersi era talmente immenso che un giorno pronunciò una virgola ed il nulla, nel quale si trovava, si riempì del suo primo soffio. Ma essere vento non gli bastava e così pronunciò la sua seconda lettera che urtando il soffio si incendiò di luce immensa ed accecante. L’infinito si illuminò per la prima volta ed allora disse: “Chi sono io?”. Ma come poteva saperlo senza alcun alterego che gli restituisse la propria immagine? Lui si vedeva desiderio, pensiero e soffio, ma era tutto indistinto. La stessa virgola che produsse il soffio lo punse nel mezzo e l’infinito sobbalzando si divise in due: parte sopra alla virgola e parte sotto alla virgola. Questo fu il suo primo passo, un movimento dentro a se stesso. Dopo essersi mosso, all’infinito venne ancora più desiderio di sapere chi fosse. La luce era però troppo accecante così l’infinito si girò su se stesso creando un poco di ombra. Guardando di nuovo, vide la sua parte rimasta sotto alla virgola.“Che cosa è quello?” urlò non poco spaventato. E’ così che l’infinito per la prima volta rilevò l’alterità, l’altro da sé che poi chiamò spazio vuoto e che poi riempì di creato perché il nulla separato ancora non gli restituiva alcun’immagine di sé. La parte di sopra alla virgola, invece, l’infinito mai la distinse da sé, ed infatti rimase a tutti, infinito compreso, inconoscibile.
Così il creato nel quale il mio guardaroba è posizionato altro non è che il trucco dell’infinito per gabbare il nulla e potersi conoscere. Io quando indosso il mantello di nappa marrone riposto nel mio guardaroba mi sento lo specchio dell’infinito ed alla domanda chi sono rispondo; “io sono l’essere che desidera essere”.
C’è poi un infinito maturo e conscio di sé che adoro e metto spesso quando l’appena nato infinito vuol riposare. Quest’ infinito datato è formato dall’illimitatezza miscelata al limite.
È un vestito regale formato di molti veli; in ognuno di essi vi è l’amata limitata illimitatezza.
Il primo velo, infinito, procede sempre avanti nel più e sempre avanti nel meno a formare parte dell’essenza della mia sottoveste. C’e’ poi la cucitura, il limite, l’immobile, che porta l’in-finito ad essere della mia taglia cucendogli addosso forma e dimensione grazie a una serie di punti crociati che lo de-limita nella mia sottoveste.
Ecco che addosso alla mia pelle ho un illimitato de-finito nato da un in-definito indeterminato perché il limite, la cucitura, ha dato una Forma alla stoffa declinando il suo essere.
Tale Forma è eterna e mi sopravivverà. È anche assoluta perché unisex.
Vi è poi un secondo velo, atto a sostenere la veste ed attaccato alla cucitura della sottoveste. E’uno scrupoloso lavoro ad uncinetto ove i punti son posti in relazione l’uno con l’altro a formare un pizzo di figure geometriche tridimensionali, canoni nati da proporzioni armoniche che uniscono il velo esterno alla sottoveste. I numeri sono un’infinità composta da unicità; così anche nel secondo velo vi è un infinito de-finito capace di dare sostanza all’essere del mio vestito.
Su tale pizzo si adagia l’ultimo velo della mia veste; quello che non solo io vedo.
Questa fattura mi rende facile indossare la veste perché mi risulta anallergica.
Il velo esterno è di puro cotone rosso.
Qui l’infinito si mostra nella sua magnificenza.
Perché è in questo strato superficiale della mia veste che l’infinito deve scendere a patti col tempo e col luogo.
Quest’ultimo velo l’ha creato un genio di pittore che è riuscito a dipingere sul cotone rosso tutti i petali dell’infinito.
Per farlo ha dovuto cadenzare, attraverso il colore, l’eternità mettendola nel divenire del tempo.
Ha poi dovuto inventare uno spazio capace di contenere tutti quei fiori che per nascere e poi appassire hanno bisogno, oltre al tempo, anche di un luogo. Un luogo incorrotto per poter reggere il peso dell’infinito, un ricettacolo fatto di cera capace di sprofondare sotto ogni impronta senza mai sposarsi con essa, materia amorfa fatta di acqua, aria, terra e fuoco mischiati assieme indistintamente.
Uno strato informe di puro cotone rosso ove il pittore ha estratto i petali ordinando e proporzionando con le sue pennellate.
Ha spinto l’acqua all’acqua, il fuoco al fuoco, la terra alla terra e l’aria all’aria così da formare magnifici fiori dai colori sgargianti e permettere a me di indossare il più bell’abito fatto di infinito fiorato mai disegnato da migliore stilista.
C’è in ultimo un infinito a forma di cappello, un vecchio cilindro grigio. Di lui so poco perché non lo ho ancora scoperto, allora lui sta lì, appeso nel mio guardaroba, in attesa che io un giorno gli dia un valore cacciandomelo sulla testa ed uscendo di casa con lui.
Creazione
Domani è un nuovo inizio, atteso, desiderato, nel profondo un poco temuto, vorrei mettere nelle vostre tasche un piccolo amuleto, un peperoncino scaccia scarogna.
Vorrei mettervi un Mezuzah, il contenitore di pergamene posto a segnale sugli stipiti degli ingressi affinché la piaga vendicativa di Dio, vedendolo, colpisca altrove.
Allora appallottolo la Creazione, quella che già è stata, e ve la ficco in tasca mentre siete distratti, ma lascio l’ultimo foglio bianco affinché voi possiate scriverci il vostro finale.
Domani vivendo.
בהתחלה
“In Principio” scritto da destra a sinistra.
“In principio Dio creò il cielo e la terra”
La prima lettera della bibbia in ebraico è “Bet” “In”, una consonante e una preposizione, una specie di C aperta verso il foglio bianco.
In principio …. ma cosa c’era prima mi sono sempre chiesta bambina ….
La Bibbia non lo dice, la prima lettera ti impone di non guardare indietro, di guardare avanti.
Ma io voglio sapere cosa sia avvenuto prima della creazione.
Per scoprirlo ho lasciato scorrere le parole del primo libro della Genesi.
La Bibbia presuppone che prima ancora dello spazio e del tempo ci fosse Dio.
Dio era il “Non Essere”.
Poi, però, Dio decide di creare qualcosa altro da sé, come se avesse sentito una Mancanza, un vuoto interiore, che gli abbia fatto sorgere un Desiderio, un desiderio di Creato.
Di Essere.
Ma lui è “ciò che è” nel non essere, e, per poter dar vita al Creato, deve rendere il vuoto del suo desiderio un vuoto concreto e solo allora lo potrà riempire d’altro.
Dio deve ridimensionarsi, deve farsi più piccolo se vuole creare.
Questo tace la Bibbia, il primo grande atto che fa Dio: una contrazione foriera di nuova Creazione.
Facendosi piccolo a Sé, Dio trasforma parte del “Non Essere” in “Essere”.
La genesi scrive: “In principio Dio creò il cielo e la terra. La terra era informe e deserta e le tenebre ricoprivano l’abisso e lo spirito di Dio aleggiava sulle acque.”
La prima forma di essenza è un ammasso senza forma, senza ordine, senza tempo.
Poi Dio fa una cosa strepitosa, si mette a parlare e pronunciando parole crea emanazioni da sé che non sono sé.
Emanando fa ordine.
Sia la luce.
Sia il cielo.
Siano le acque separate dall’asciutto.
Siano i germogli, le erbe e gli alberi da frutto.
Siano il sole, la luna e le stelle
Che le acque brulichino di esseri viventi e uccelli volino sopra la terra.
Che la terra produca esseri viventi: bestiame, rettili e animali selvatici.
Sia l’uomo a nostra immagine, secondo la nostra somiglianza.
Ad ogni emanazione, Dio si ferma, contempla, vede che è cosa buona e nel suo vedere il Bene da luogo al tempo scandendo i giorni.
C’è un’unica Identità del suo creato per la quale Egli si renda anche Artefice: è l’Uomo.
“Allora, il Signore Dio plasmò l’uomo con polvere del suolo e soffiò nelle sue narici un alito di vita e l’uomo divenne un essere vivente.”
L’umanità nasce come emanazione di Dio, ma nasce anche come sua creazione oggettuale.
Esce dalla testa di Dio e dalle sue mani.
Nasce come pensiero e come artefatto.
Poi Dio si riposa e l’Uomo vive nel giardino dell’Eden.
Dio trasforma il “Sé non Essere” in “ Sé Essere” per una Mancanza ontologica che crea un Desiderio ontologico così forte da immaginare uno spazio fuori, limitante del Sé, ove collocarvi la sua Creazione ancor prima dello spazio e del tempo fisico.
Dio limita l’Illimitato.
Poi, emanandosi attraverso il soffio delle parole, sversa nell’umanità, assieme a se stesso, anche quel vuoto e quel desiderio e nel passaggio da “Non Essere” a “Essere” vuoto e desiderio diventano la nostra Anima.
Quale Artefice dell’Uomo nel plasmarlo Dio innesca l’Anima a tendere a ciò che è. A realizzare la propria natura.
Così, nel passaggio da “Non Essere” a “Essere” vuoto e desiderio diventano anche la nostra libertà che rifiuta di stare a lungo nell’attualità e riconosce a se stessa, quale anima, quell’essere mancanza ed assieme seme.
Quell’essere capacità di potenza: quel saper, cioè, sempre immaginare l’oltre.
Domani è il nostro oltre, a ognuno di noi scriverlo.
Due Ortensie dal passato
La vita non può più svolgersi orizzontalmente.
Il fuori è impedito.
Lavoro ed amicizie sono ora veramente esclusivamente virtuali.
Ma come si fa a stare fermi? Forse si possono fermare le gambe, ma non certo la mente.
Così la vita diventa verticale.
Può accadere che si noti una porta di un giardino incantato, rimasto nascosto dietro ad una folta maglia di rami carichi di fiori d’Arancio o ad una coltre di scorie di carbone esausto, comunque mai visitato, perché mai riconosciuto.
Il mio giardino, mi accompagna da molto tempo, adoro ritirarmici ogni volta che posso perché è lì che io scopro la vita.
La mia porta, ben aperta, è la tranquillità della mia casa, la sua luce, i suoi terrazzi. L’ho creata perché fosse lo spazio fisico verso il mio Eden; il mobilio serve per permettermi in ogni luogo l’accesso al giardino e così le piante sui terrazzi sono l’ombra del mio pensare.
In questi giorni di grande calma, per accidente ho letto in contemporanea Il Fedone di Plantone, il papà del pensiero occidentale, vissuto nel fiore dell’antica Grecia e Lo Specchio delle Anime Semplici di Margherita Porete, una Beghina, cioè una donna che ha deciso di non vivere la propria fede sottomessa all’autorità ecclesiastica, ma solo secondo il proprio sentire e per questo arsa viva sul rogo, quale eretica, nella Parigi universitaria del 1310 sul finire del Medio Evo.
Il Fedone è il racconto postumo fatto da Fedone dei dialoghi avvenuti tra Socrate ed i suoi più stretti amici nell’ultimo giorno della vita del filosofo, prima dell’esecuzione della condanna a morte serale, condanna dovuta al fatto che Socrate non aveva voluto difendersi dalle accuse di non adorare gli Dei della città e di insegnare questo ai giovani.
In realtà è Platone che con il dialogo descrive la sua idea sull’Essenza delle cose, ma soprattutto sull’immortalità dell’Anima.
Dunque nel dialogo, Fedone racconta che, nonostante il momento straziante, non ha provato particolare dolore perché Socrate pareva Felice.
Infatti, alla certezza della condanna la sera, Socrate, fatta mandare a casa la moglie Santippe, perché troppo straziata dal dolore, si mette a riflettere di come al piacere sia indissolubilmente legato il dolore e dice “… mentre qui nella gamba c’era il dolore prodotto da catene, ora ecco che a quello viene dietro il piacere” (probabilmente era stato slegato).
Lui dice agli amici di essere felice perché sta per andare tra gli Dei buoni e gli Uomini migliori nell’Ade, ma gli amici gli dicono che a loro non sembra questo un comportamento da uomo saggio. Allora Socrate decide di difendersi da questa affermazione come se fosse in tribunale e spiega che l’anima deve raccogliersi in se stessa, lasciando il corpo se vuole arrivare alla Verità cioè all’Essere.
I Greci pensavano infatti che l’uomo fosse costituito da corpo ed anima, ma che il corpo fosse solo un intralcio materico all’anima, luogo ove era contenuta la vera totale essenza umana.
Così il dialogo diviene una riflessione sull’anima. Cosa succede all’anima quando il corpo muore? Rimane viva oppure muore anch’ella? Se esiste prima del corpo, come entra nel corpo? Se, alla morte, si distacca dal corpo dove va?
Razionalmente Socrate dimostra come le cose si generano dai loro contrari: il più piccolo dal più grande, attraverso il meccanismo di diminuzione, il più grande dal più piccolo attraverso il meccanismo dell’accrescimento, quindi, nello stesso modo le cose vive si generano dalle cose morte, e le cose morte si generano da quelle vive.
Poi sempre razionalmente Socrate dimostra che noi conosciamo perché esistono degli “uguali in sé” cui gli oggetti e le cose del mondo assomigliano per difetto. E noi comprendiamo il mondo ricordandoci delle cose in sé, che, al momento della nascita, abbiamo dimenticato.
Ora se noi conosciamo ricordando significa che l’anima, cioè la vera parte umana, era viva nell’Ade, nell’aldilà. Ciò significa pertanto che l’anima è immortale.
Non sazio di ciò Socrate fa una seconda dimostrazione dell’immortalità dell’anima.
Egli si chiede se il Bello si sé, il Vero in sé, il Buono in sé; insomma l’Essere in sé possano in qualche modo mutare e dimostra di no; essi rimangono immutabili in qualità, quantità e tempo, mentre invece il vero, il buono, il bello umano cambiano perché sono percezioni sensoriali personali.
Ciò significa che vi sono due forme di esseri: una visibile, che non permane nella medesima condizione: il corpo; l’altra invisibile che permane nella medesima condizione: l’anima.
Socrate va oltre dando una terza dimostrazione razionale dell’ immortalità dell’anima
Dimostra che il contrario non può mai accogliere il proprio contrario, dimostra anche che tale contrario non può nemmeno mai ammettere una cosa che porti dentro di sé un contrario a se stesso. Il 3 è dispari, il 4 pari. Il 3 non è contrario del 4 in quanto sono entrambi numeri; ma il 3 non potrà mai essere assimilabile al 4 poiché uno è dispari ed uno pari, e nonostante entrambi siano numeri il pari ed il dispari sono tra sé contrari.
Se arriva il 4 il 3 deve o allontanarsi o morire.
Seguendo la stessa logica:
Cosa si deve generare in un corpo perché sia vivo? L’anima.
L’anima qualunque cosa occupi entra portandovi sempre la vita.
Cosa c’è di contrario alla vita?
La morte.
Come chiamo ciò che non accoglie la morte?
Immortale.
Allora l’anima è immortale.
“Quando l’uomo raggiunge la morte, la parte di uomo che è mortale, come è ovvio muore, ma l’altra parte che è immortale, sana e salva e incorrotta se ne va via lasciando il posto alla morte.”
Poi Socrate si chiede cosa sia l’Intelligenza.
E così ci spiega: quando l’anima si attacca molto al copro essa è attratta verso le cose che non permangono mai identiche a se stesse perché questa è la qualità del corpo ed in questo situazione l’anima si confonde; ma se l’anima sta in sé sola e per sé sola si eleva al Puro Eterno, Immortale, al Mondo Ideale e ivi rimane sempre nella medesima condizione poiché immutabili sono le cose alle quali si è attaccata, smettendo così di errare sia nel senso di sbagliare sia nel senso di vagabondare nel mondo non ideale.
Per Socrate quest’ultimo stato si chiama Intelligenza ed è propria del filosofo.
L’Anima raccogliendosi in se stessa tiene per vero “ ciò che essa da sè intende e da sè sola, quale che sia quell’essere in sè e per sé che essa di sè pensa”
Perché quindi non essere felice di tornare solo Essere?
Platone traccia così la via all’Essenza che è una via nell’Intelligenza, solo una vita dedicata alla conoscenza può unire l’Anima all’Essere.
E dimostra a tutti che la sua felicità in quel momento è ciò che di meglio un uomo saggio possa provare davanti alla morte imminente.
Questa via nell’intelligenza verrà arricchita da Aristotele, da Plotino, per codificarsi nel medioevo nella teologia Scolastica di Agostino e poi Tomistica di Tommaso.
Nella realtà del mondo ciò ha significato che ad un certo punto solo nelle Università e solo i Clerici, uomini di chiesa ed istruiti nel sapere secondo un canone prestabilito, potevano arrivare a disquisire di Dio e dell’Essenza.
Tutto il resto dell’umanità era tenuto alla pratica, ma non alla conoscenza.
Ma ecco che, mille trecento anni dopo Platone, Margherita scrive un libro dove Anima ha un dialogo con Amore e Ragione su cosa significhi unirsi a Dio e su come ciò avvenga.
Quello che fa Margherita, non è diverso da quello fa Platone; infatti nel mondo medioevale Dio ed Essenza sono ormai la stessa cosa perché in milleottocento anni di storia umana Deità ed Essenza si sono congiunti.
Margherita, fervente cristiana, arriva all’Infinito dall’interno di una religione.
Usando le parole di Platone, lei descrive cosa sia l’Anima, cosa sia l’Essere , e come l’Anima partecipi dell’Essenza.
Anche per Margherita l’essere umano è corpo ed anima, anche per Margherita, Dio è altro rispetto alla dimensione umana.
Anche Margherita sostiene che la vera conoscenza può avvenire solo attraverso il distacco dagli accadimenti della vita perché non vi è conoscenza in presenza di attaccamento all’oggetto che, per sua peculiarità, esalta alterità tra i due.
Mentre l’Anima di Platone, e del pensiero che da lui scorre nei secoli, per potersi unire all’Essere e vivere la propria immortalità, deve allontanarsi dalla vita, immergendosi nella conoscenza razionale, e poi abbandonare definitivamente il corpo nella morte, l’Anima di Margherita è Essere nell’Essere in questa stessa vita.
Questa donna unisce l’Anima direttamente a Dio senza mediazione alcuna, senza la maschia mediazione ecclesiastica, senza bisogno di conoscenza.
Dentro alle pagine del suo libro Umanità ed Essenza fanno la pace, non più uno e l’altro, non più uno nell’altro, non più bisogno di dimostrazione, ma solo uno indistinto: Amore, il Fine Amore.
Lei nega Dio come altro da sé e canta l’unione totale di sé con Dio, di sé con il LontanoVicino, come lo chiama lei.
La sua anima semplice “ è così chiara nella conoscenza che vede sé come nulla in Dio, e Dio come nulla in sé.”
Questa è l’immanenza di Margherita.
L’anima nell’Essere è annichilita, cioè annientata, perché la sua è una fusione totale con l’Essenza che perde il valore esistenziale dei due soggetti per lasciarne uno solo ove Dio e l’Umano cessano in sè per lasciare vita all’Essere della loro fusione.
“Tale anima arde talmente nella fornace del fuoco d’amore, che è divenuta propriamente fuoco, per cui non sente affatto il fuoco, poiché è fuoco se stessa, per virtù d’Amore che l’ha trasformata in fuoco d’amore.”
Margherita descrive nel libro come l’Anima arriva a ciò. L’anima dapprima vive la vita pienamente, nella completezza e nella mancanza, ma Amore la chiama e sette sono gli stadi per arrivare all’Essenza.
Nel primo stadio “l’Anima toccata da Dio, per grazia è spogliata della capacità di peccare. L’anima ama Dio ed il prossimo con tutta sè stessa, e questo sembra ad anima una grande fatica.”
Nel secondo stadio “L’anima tiene in considerazione ciò che Dio consiglia ai suoi speciali amici”. “La creatura s’abbandona e si sforza di agire al di sopra di tutti i consigli degli uomini nelle opere di mortificazione della natura, disprezzando ricchezze, delizie ed onori per compiere alla perfezione il consiglio del Vangelo, di cui Gesù Cristo è l’esempio.”
Nel terzo stadio “l’Anima considera se stessa nell’affetto d’amore dell’opera di perfezione nel quale il suo spirito è acuito da un fervente desiderio dell’amore di moltiplicare in lei tali opere; tale cosa è compiuta dalla sottigliezza conoscitiva dell’intelligenza del suo amore, che non sa offrire al suo amico, per riconfortarlo, altro che quello ch’egli ama … Ora accade che la volontà di questa creatura non ama che le opere di bontà, per la sua fermezza nell’intraprendere magnanimamente tutte le fatiche nelle quali può nutrire il suo spirito …. e perciò non sa cosa donare ad amore tranne che fargli sacrificio di questo; infatti nessuna morte sarebbe per lei martirio se non l’astinenza dalle opere che ama, le quali costituiscono la delizia del suo piacere e la vita della volontà che di ciò si nutre.”
Nel quarto stadio: “ E’ quando l’Anima è tratta, per altezza d’Amore al diletto di pensare nella meditazione e abbandonata da ogni fatica esteriore e dall’obbedienza ad altri grazie all’altezza della contemplazione …. Eh, non c’è da meravigliarsi se tale Anima è sopraffatta, poiché Amore grazioso la rende del tutto ebbra da non permetterle di rendere a lui, per la forza con cui Amore la diletta … grande chiarità d’Amore le ha talmente abbagliato la vista che non le lascia vedere niente, oltre al suo amore. Ed in questo ella si inganna …”
Nel quinto stadio: “il quinto stadio è quando anima considera che Dio è, lui attraverso cui ogni cosa è, e che lei non è, e da lei quindi nessuna cosa è. E queste due considerazioni le danno un meraviglioso stupore ed ella vede che è tutta bontà, colui che ha messo libera volontà in lei, la quale non è se non nella totale malizia ….”
Nel sesto stadio: “ il sesto stadio è quando l’anima non vede affatto se stessa, qualunque sia l’abisso di umiltà che ha in sé, ne vede Dio, qualunque sia l’altezza della sua bontà. Ma è Dio che si vede in lei, nella propria divina maestà che illumina di sé quest’Anima, tanto che essa non vede nulla che esiste, tranne Dio stesso, e per questo elle non vede se non se stessa ….”
Nel settimo stadio: esso “ custodisce in sé Amore, per darcelo nella gloria eterna, e non ne avremo conoscenza finché la nostra anima non avrà lasciato il nostro corpo”.
Il sesto stadio ove l’anima e annichilita in Dio e Dio è l’Anima avviene dentro alla vita.
L’Anima annientata mette la vita oltre il desiderio alle opere di bene, oltre alla certezza delle virtù oltre allo spirito di contemplazione e la depone come un seme nel centro dell’Essere, nel centro di Dio e rende l’Eterno completo solo nel momento in cui fonde se stesso all’Umano.
“Se conosceste perfettamente il vostro niente, non fareste niente, e questo niente vi darebbe tutto.” “Io sono, dice quest’Anima, e sono e sarò sempre senza venir meno, poiché Amore non ha nè inizio né fine né limiti, ed io non sono che Amore.”
“Non fanno queste Anime niente che non piaccia loro, e se lo fanno tolgono a se stesse pace, libertà e nobiltà. Poiché l’anima non è affinata, se non quando fa quello che le piace e non ha rimorso a fare quello che le piace …. Poiché è caduta dalla grazia nella perfezione dell’opera della Virtù, e dalle Virtù nell’Amore, e dall’Amore nel nulla, e dal nulla nella chiarezza di Dio.”
“La Pace di tale vita nella vita divina non consente di pensarla, né di dirla, ne di scriverla, tanto l’Anima è in questo Amore senz’opera corporale, senz’opera di cuore, senz’opera spirituale: per opera divina ha adempiuto la legge.”
L’anima di Margherita fonde Attributo e Potenza, significato e significante, Uomo e Dio nel momento in cui perviene al ultimo termine dell’Essenza che è un momento che appartiene alla vita. Margherita canta una vita nell’Essenza e per capirla fino in fondo bisogna leggerla perché non è razionalmente raccontabile.
Fondendo Umanità e Deità, vuoto e pieno, disperazione e felicità, mostra la sua strada alla conoscenza che diventa tale avendo smesso ogni volontà di sapere nel varcare la soglia del Sapere stesso.
“Quest’anima venne dal mare ed ebbe nome; e di come rientra nel mare e perde così il nome, e non lo ha più, tranne quello di colui in cui è perfettamente trasformata; ossia nell’amore dello sposo della sua giovinezza, che ha trasformato la sposa tutta in se stesso. Egli è, per cui anche’essa è, e ciò a lui basta a meraviglia, e questi è l’amore gioioso, per il quale ella è amore; e ciò la diletta” … “ e questo divino amore genera nell’Anima annichilata, nell’Anima affrancata, nell’Anima chiarificata, sostanza eterna, fruizione gradita, congiunzione amorevole … tale unione la mette in un essere senza essere, che è l’Essere.
Quella di Margherita è una Essenza nella vita fatta di atti, pensieri, bisogni e desideri, che da questi non si fa imbrogliare in nulla che sia più piccolo che Dio; che l’Infinito.
Margherita come Socrate, non si difenderà dalle accuse, non professerà alcuna parola durante tutto il processo dell’Inquisizione perché la morte per lei come per lui non è che un accadimento della vita che nulla toglie alla Vita, che nulla può togliere alla Felicità.
Leggere Platone è come scoprire briciolina per briciolina Anima e Essenza.
Leggere Margherita è essere raccolta dall’Anima e venir fagocitata con lei nell’Essenza di Amore.
E l’immagine della lunga fila ferma di camion militari che in Bergamo aspetta di trasferire via dai luoghi della loro vita e dei loro affetti tutte quelle salme sole non brucia più perché la morte ha significato nella vita.
Il mio giardino mi ha regalato queste due Ortensie dal petali tinti di Eterno, di Infinito, di Conoscenza che nessun altro luogo del mondo avrebbe potuto mostrarmi.
Senza coglierle, né toccarle per non sgualcirle, le ho porse a voi sotto forma di racconto.
“Fedone” di Platone, Atene 387 a.c. circa
“Lo specchio delle anime semplici” di Margherita Porete, nord della Francia 1290 d.c. circa
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