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Tramonto

Il Sole è un gran lavoratore, impegnato in millesimali mansioni. Sale e scende le scale della sua reggia più volte al giorno perché, data l’età, è un dimenticone e non ha mai con se’ ciò che al momento gli serve. S’accende di luce quando è felice e si spegne infastidito, raffreddando ogni cosa, quando ricorda di aver lasciato gli occhiali al piano di sotto. E’ un astro alquanto preso dal suo lavoro e poco lascia alla propria cura. Pur essendo radioso e splendente non bada tanto alla sua bellezza diffusa perché, a ben guardare, a nulla serve per ciò che deve creare. Ma c’è una cosa che da millenni non riesce a non fare quando scende le scale della sua stanza sopra Albarella. Lui si guarda riflesso nell’ acqua della laguna, suo personale specchio da tavolo, e nota il suo cerchio perfetto, il suo colore giallo rossiccio e il fatto di essere bello da far risplendere ogni cosa a lui prossima. Vede se stesso riflesso dentro ad un mondo a lui estraneo, che poco conosce, ma che tanto apprezza per la bellezza. E’ un mondo fatto di terra bagnata, di aria e nubi e, di lontano, gli par pure di scorgere costruzioni in mattoni che paiono case dai mille colori che nulla hanno però a che fare con la sua dimora regale. Lui pensa sian case, ma non ne’ è molto sicuro. Quindi, ogni volta che scende tal scala, volendo capirne di più di quel mondo riflesso, accende la sua corona di raggi rossi che spinge come tentacoli in aria a tastare tanta affascinante diversità. E’ in quel momento che il mondo riflesso dentro al suo specchio risponde tratteggiando a pennarello le proprie forme così da farsi meglio vedere dal suo astro vicino. Chi ha la fortuna di vivere dentro a quelle sagome gode allora di uno spettacolo doppio: vedere la propria dimora mostrare esaltata la più sottile linea di se’ e vedere il Sole allungare il collo per carpire e trattenere quanto di marginale, ma profondamente maestoso il suo mondo vicino gli offre alla vista nel suo specchio da viaggio mentre scende al piano di sotto.

Meduse e gamberetti

L’acqua non era il suo ambiente, ma quella distesa di meduse e gamberetti, sparsa nel verde di laguna, aveva un tale richiamo su di Lei che semplicemente si trovò a scendere i gradini di legno e ad immergersi con la delicatezza che i suoi cinquant’anni ancora le permettevano. Si muoveva lentamente, solo i minimi gesti necessari a non annegare per non disturbare quell’andare di pesci. Le meduse si spostarono il tanto che basta per farle spazio e poi si ridistribuirono come se lei facesse parte di quelle acque da tempo. Non la temevano, non la attaccavano. I gamberetti, ancora di color nero, perché vivi e crudi, parevano pensarla come le meduse e semplicemente si aggiustarono un poco. Così lei trovò il suo posto in quel popolo di gelatina e baffi neri. Con la bocca a filo delle acque baciate dai raggi del sole di tramonto ed i capelli infuocati dai medesimi lampi, alzò i palmi verso la luce, ma sotto al limite liquido ed aspettò. Le meduse presero a passare sopra quelle mani rivolte alla luce e vi si adagiarono dentro forse a provare la stasi in palmo umano o forse senza nemmeno sapere il perché. Lei chiudendo le dita riusciva a toccare il dorso degli animali; e, ad ogni tocco, l’animale reagiva muovendo tutti i tentacoli fino a sfiorarla. Era un poco come se un essere fosse lo strumento musicale dell’altro. Mentre questa musica di corpi avveniva altre meduse e gamberetti la sfioravano ovunque nel corpo, come ad assaggiarla, per poi continuare nel loro moto subacqueo. Lei perse il senso del tempo dentro a quel concerto bagnato, gelatinoso e lucente. Tornò a se stessa quando il sole aveva ormai perso i suoi raggi e le acque si erano fatte nere e scure. Lasciò gli animali alle loro faccende notturne ed uscì dall’acqua. Pura vida.