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il caffè al bar

Confinata nell’auto distanziamento dovuto a quel virus antisociale Lei aveva dimenticato cosa significasse entrare in un bar, scambiare due chiacchiere con il barista, sorridere alle persone presenti, sedersi, aspettare il cameriere per le ordinazioni e farsi servire al tavolino con la mente distratta da un pensiero pesante oppure frizzante.
Era una giornata calda di Giugno ancora non fastidiosa e la vita tornava quasi ad essere normale. Ancora le persone uscivano in strada con le mascherine, ancora si percepiva l’altro come un misto tra un pericolo e un fratello, ma i bar erano stati riaperti ed era bello vedere le saracinesche alzate, le luci accese ed i baristi indaffarati dietro ai banconi. La città spenta si era riaccesa scaldando il suo cuore.
Le venne voglia di entrare a bersi un caffè, così, dopo aver litigato un poco, con il pensiero: “rischio o non rischio”, il bisogno di normalità prese il sopravvento e si ritrovò dentro al bar senza aver deciso di entrarvi.
Si fermò imbarazzata poco oltre la porta ancora incredula che quell’azione fosse lecita.
Il barista, che probabilmente aveva letto quello scombussolamento sulla faccia di ogni avventore dalla riapertura, con un sorriso le disse: “prego si accomodi”. Lei colpita da quelle prime parole della sua appena rinata vita sociale rispose: “ Ma posso sedermi al tavolino?” “Certo dove vuole.” Scelse con cura il tavolo e si sedette rivolta verso il bancone perché voleva vedere la vita davanti ai suoi occhi. “Cosa le porto? “ chiese il cameriere avvicinandosi al tavolo. “Un latte macchiato e una brioche al cioccolato”. Poter ordinare era stato un piacere in sé e così le venne da sorridere. Il cameriere parve capirlo perché rispose con un sorriso e una strizzatina d’occhio. Anche le altre persone sedute, di solito indifferenti alla presenza di estranei, parevano felici per quella umana vicinanza e sorridevano complici all’incontro degli occhi altrui. Arrivò il suo latte macchiato e non fu facile abbassar la mascherina per bere, per un attimo la sua mente cercò un modo di farlo con la mascherina indossata, ma era impossibile così se la tolse non sapendo bene dove appoggiarla. Optò per il tovagliolo. Era così bello stare fuori, dentro a un bar, senza protezioni in mezzo a tutte quelle persone ignote, ma anche partigiane di una esperienza che aveva segnato tutti allo stesso modo. Arrivò anche la brioche e Lei cominciò la sua colazione. Quasi le vennero le lacrime agli occhi al primo boccone. Si commosse alla bellezza della vita libera che si esprimeva in quel sapore. Le venne da pensare alla cosa più bella della vita e si sorprese del pensiero che fece. Pensò al figlio, alla fortuna che aveva di stare accanto a quel ragazzone che si apriva alla vita. Pensò a come era stato bello condividere gli stessi spazzi per giornate intere e quanto sarebbe stato bello ora, che la vita era tornata normale, non condividerli più. Si stupì che i suoi pensieri avessero riassunto l’esperienza più profonda della vita nel proprio figlio, ma così era stato e si intenerì. Continuò, guardandosi intorno, a bersi a due mani il suo latte macchiato godendo di quell’intima felicità che le diceva chiaro che stava vivendo.

Togliersi

Ricordo quando, bambina, ascoltavo le storie del nonno e della nonna sui tempi di guerra. Il nonno raccontava il suo essere soldato. Il generale della sua brigata gli aveva affidato la cura del proprio cavallo personale, Tom, forse perché il nonno era di animo gentile. La sua guerra fu spesa nel cercare di tenere in vita il cavallo del generale sempre e comunque ed il cavallo sopravvisse le battaglie e così il nonno la guerra.
La nonna, invece, raccontava la sua guerra fatta di bombardamenti e rifugi, di quando le sirene suonavano e lei si legava addosso le sue piccolissime bimbe e si lanciava nel primo rifugio che trovava e li aspettava sperando in cuor suo che quella cantina non divenisse anche la loro tomba.
Le loro storie avevano il sapore di un’avventura spaventosa alle mie orecchie; io non riuscivo a cogliere il lato tragico del pericolo e della morte, perché erano storie raccontate dai nonni ed i nonni portavano solo felicità nel mio mondo bambino e …. qualche storia che faceva paura.
Quello che mi impressionava però era la dimensione mondiale di quelle paurose avventure perché i nonni mi dicevano che tutto il mondo era messo a ferro e fuoco dalle bombe e dall’odio della guerra e che tutte le persone cercavano di sopravvivere come potevano.
La globalità io non l’ho imparata a scuola, l’ho appresa, ben prima, dai racconti dei nonni e da allora per me la parola “mondiale” ha sempre avuto una declinazione oscura, legata a quelle avventure paurose; di mondiale nella mia testa per molto tempo c’è stata solo la guerra.
Poi sono cresciuta ed il mondo ha perso i connotati della favola ed è diventato reale, e nel passaggio da fantasia a realtà si è trasformato nel luogo ove i piedi poggiano. La mia attenzione era riposta in altro, la vita era altrove totalmente slegata dalla dimensione della paura e della resistenza.
Ma ecco che la parola mondiale torna nel giro di poche ore a legarsi a un estensione spaziale ed ad un’avventura comune, di nuovo una lotta non più tra uomini, ma dell’essere umano.
Oggi il senso del pericolo e della morte è ben chiaro ai miei sensi adulti mentre io scandaglio i fatti attuali con il significato della parola mondiale compreso nei racconti dei miei nonni ancora presenti nella mia memoria.
Il mondo gioca in difesa e resta a casa. Mi colpisce l’idea che mondiale sia l’azione del togliersi, non tanto come contrasto al virus, che è territorio medico, ma come azione comune e contemporanea. Stiamo tutti agendo nel medesimo modo con il medesimo fine. Un restare a casa ordinato, silenzioso, gioioso nelle sue manifestazioni comuni di supporto reciproco. Un togliersi che non ha bandiere e che rimane uguale sia nel totalitarismo che nella democrazia. Un togliersi che appartiene a ogni luogo della terra.
Un’azione che viene dalla paura forse, ma che ha reso per la prima volta nella storia l’essere umano un unico organismo agente.
L’abbiamo raggiunta sul serio la globalità.
I particolarismi, i nazionalismi, ma anche le organizzazioni sovranazionali sono un passo indietro rispetto al io resto a casa.
È una globalità di specie come probabilmente la si percepirebbe guardando la terra da un altro punto dello spazio.
Mondiale ha assunto una valenza inedita.
C’è una nuova civiltà in esso compresa.
Chissà se l’essere umano ne saprà cogliere l’aspetto positivo della completa comunione o ne sfrutterà quello negativo della incondizionata comune reazione?
Chissà cosa ne penserebbero i miei nonni?