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Il sidro

Era un pomeriggio d’estate, afoso, di quelli in cui anche il camminare è fatica immane, così nella città deserta non restava che fermarsi a bere un sidro all’ombra delle paglie invecchiate sotto alle quali i baristi erano soliti posizionare i tavolini di legno fuori dagli ingressi dei loro bar.
L’uomo non aveva voglia di bere da solo, così individuò due figure sedute, già intente nell’assaporare la dolce bevanda, che per qualche strano motivo parevano interessanti e con un cenno di capo chiese se fosse possibile sedersi al medesimo tavolo.
Non era un comportamento strano sedersi con estranei a quei tempi. Era abbastanza normale entrare in un locale ed unirsi a inverosimili compagnie che trovavano il loro unico scopo di essere nel dividere un tavolo per accompagnare la calura pomeridiana incontro alle brezze serali.
Uno degli uomini già seduti era cicciottello, scuro nei tratti, con un grande sorriso. Tutto di lui pareva rilassato. Non era a suo agio con quel caldo, probabilmente era straniero in quella città, forse abituato a climi più freddi. Il secondo uomo, alto e asciutto, aveva capelli grigi e riccioli, sembrava molto riservato, chiuso in se stesso e decisamente a suo agio in quel clima.
Forse era stata la grande differenza tra le due persone che aveva catturato l’attenzione del terzo uomo; quei due erano così agli antipodi l’uno dall’altro che egli pensò sarebbe stata un’interessante distrazione dal caldo cercare di decifrare cosa li tenesse assieme perché i due, ognuno con la propria modalità, l’uno rilassato ed espansivo, l’altro riservato e raccolto chiacchieravano amabilmente.
Dopo aver ordinato un sidro per il nuovo arrivato e dopo alcuni convenevoli i due ripresero a parlare tra loro. Stavano scarabocchiando qualcosa sui tovaglioli di carta; un disegno pareva una croce forata nel centro con tre gradoni per ogni lato, ed era l’uomo abbondante a tratteggiarlo sulla carta cerata, l’altro invece stava tracciando una serie di dieci cerchi collegati tra loro da linee e sicuramente disposti secondo un qualche senso in tre diverse colonne.
Pareva si stessero spiegando a vicenda una qualche rivelazione che ognuno di quei due disegni nascondeva, ma non si stavano convincendo a vicenda della veridicità dei significati, pareva piuttosto che stessero confrontandosi sulle affinità che le due rappresentazioni avevano nel loro intimo.
Il terzo uomo si concentrò sui simboli, non li aveva mai visti prima; mentre li guardava qualche parola della conversazione raggiungeva la sua mente persa nei disegni: significato della vita, io sono mi manda, sarò chi sarò, tre mondi, cinque mondi, spazio e tempo, verticale orizzontale, maschio femmina, andare e tornare, luce emanazione, uno molti, conoscibile inconoscibile, desiderio e vita, parola e vita, sogno e vita….
Più loro conversavano, più lui si appassionava ai discorsi oltre che ai disegni.
Man mano che ascoltava i due parlare, i disegni prendevano significato, erano rappresentazioni semplici ed immediate delle loro religioni che però, ad approfondirne il senso, raccontavano di profondi costrutti filosofici sulla natura del mondo e sul senso della vita
Quei due uomini avevano avuto la capacità di concentrare un universo di idee in un simbolo.
Dopo le loro spiegazioni reciproche, guardando quei disegni lui si sentì come iniziato ai significati veri della vita. I due simboli non coincidevano esattamente sui significati, ma nella loro diversità esprimevano un’incredibile similitudine nell’aspetto fondamentale di unità che davano a tutte le manifestazioni della realtà ed al sentire dell’individuo; un legame dato dall’essere parte di un tutto troppo grande per essere contenuto nella sola fisicità;
un’unità nell’ infinità ed infinità nell’unità.
Era proprio questa idea latente nei due pensieri, che mai si erano incontrati durante la loro formazione, che aveva attirato la sua attenzione. Lui che tanti anni aveva speso in pensieri simili senza arrivare mai a tanta semplice globale essenzialità ora si trovava disarmato davanti alla forza dei simboli.
Pensò se anche lui potesse disegnare qualcosa sulla carta cerulea, ma la sua filosofia e le sue credenze religiose non avevano partorito simboli tanto potenti. Gli unici disegni che gli venivano in mente erano il simbolo matematico dell’infinito, quell’otto orizzontale chiuso in se stesso e la croce immagine di morte, supplizio e sofferenza seguita poi dalla resurrezione; nessuno dei due racchiudeva il significato profondo della vita e la spiegazione del mondo su cui lui aveva tanto pensato e studiato.
Alzò gli occhi verso la sua compagnia e chiese: “Ma voi chi siete?” Il cicciottello rispose: “un guaritore”, lo smilzo disse: “un profeta”. “Tu chi sei?” gli chiesero. Lui rispose: “Un filosofo.”

Due Ortensie dal passato

La vita non può più svolgersi orizzontalmente.

Il fuori è impedito.

Lavoro ed amicizie sono ora veramente esclusivamente virtuali.

Ma come si fa a stare fermi? Forse si possono fermare le gambe, ma non certo la mente.

Così la vita diventa verticale.

Può accadere che si noti una porta di un giardino incantato, rimasto nascosto dietro ad una folta maglia di rami carichi di fiori d’Arancio o ad una coltre di scorie di carbone esausto, comunque mai visitato, perché mai riconosciuto.

 

Il mio giardino, mi accompagna da molto tempo, adoro ritirarmici ogni volta che posso perché è lì che io scopro la vita.

La mia porta, ben aperta, è la tranquillità della mia casa, la sua luce, i suoi terrazzi. L’ho creata perché fosse lo spazio fisico verso il mio Eden; il mobilio serve per permettermi in ogni luogo l’accesso al giardino e così le piante sui terrazzi sono l’ombra del mio pensare.

 

In questi giorni di grande calma, per accidente ho letto in contemporanea Il Fedone di Plantone, il papà del pensiero occidentale, vissuto nel fiore dell’antica Grecia e Lo Specchio delle Anime Semplici di Margherita Porete, una Beghina, cioè una donna che ha deciso di non vivere la propria fede sottomessa all’autorità ecclesiastica, ma solo secondo il proprio sentire e per questo arsa viva sul rogo, quale eretica, nella Parigi universitaria del 1310 sul finire del Medio Evo.

 

Il Fedone è il racconto postumo fatto da Fedone dei dialoghi avvenuti tra Socrate ed i suoi più stretti amici nell’ultimo giorno della vita del filosofo, prima dell’esecuzione della condanna a morte serale, condanna dovuta al fatto che Socrate non aveva voluto difendersi dalle accuse di non adorare gli Dei della città e di insegnare questo ai giovani.

In realtà è Platone che con il dialogo descrive la sua idea sull’Essenza delle cose, ma soprattutto sull’immortalità dell’Anima.

Dunque nel dialogo, Fedone racconta che, nonostante il momento straziante, non ha provato particolare dolore perché Socrate pareva Felice.

Infatti, alla certezza della condanna la sera, Socrate, fatta mandare a casa la moglie Santippe, perché troppo straziata dal dolore, si mette a riflettere di come al piacere sia indissolubilmente legato il dolore e dice “… mentre qui nella gamba c’era il dolore prodotto da catene, ora ecco che a quello viene dietro il piacere” (probabilmente era stato slegato).

Lui dice agli amici di essere felice perché sta per andare tra gli Dei buoni e gli Uomini migliori nell’Ade, ma gli amici gli dicono che a loro non sembra questo un comportamento da uomo saggio. Allora Socrate decide di difendersi da questa affermazione come se fosse in tribunale e spiega che l’anima deve raccogliersi in se stessa, lasciando il corpo se vuole arrivare alla Verità cioè all’Essere.

I Greci pensavano infatti che l’uomo fosse costituito da corpo ed anima, ma che il corpo fosse solo un intralcio materico all’anima, luogo ove era contenuta la vera totale essenza umana.

Così il dialogo diviene una riflessione sull’anima. Cosa succede all’anima quando il corpo muore? Rimane viva oppure muore anch’ella? Se esiste prima del corpo, come entra nel corpo? Se, alla morte, si distacca dal corpo dove va?

Razionalmente Socrate dimostra come le cose si generano dai loro contrari: il più piccolo dal più grande, attraverso il meccanismo di diminuzione, il più grande dal più piccolo attraverso il meccanismo dell’accrescimento, quindi, nello stesso modo le cose vive si generano dalle cose morte, e le cose morte si generano da quelle vive.

Poi sempre razionalmente Socrate dimostra che noi conosciamo perché esistono degli “uguali in sé” cui gli oggetti e le cose del mondo assomigliano per difetto. E noi comprendiamo il mondo ricordandoci delle cose in sé, che, al momento della nascita, abbiamo dimenticato.

Ora se noi conosciamo ricordando significa che l’anima, cioè la vera parte umana, era viva nell’Ade, nell’aldilà. Ciò significa pertanto che l’anima è immortale.

 

Non sazio di ciò Socrate fa una seconda dimostrazione dell’immortalità dell’anima.

Egli si chiede se il Bello si sé, il Vero in sé, il Buono in sé; insomma l’Essere in sé possano in qualche modo mutare e dimostra di no; essi rimangono immutabili in qualità, quantità e tempo, mentre invece il vero, il buono, il bello umano cambiano perché sono percezioni sensoriali personali.

Ciò significa che vi sono due forme di esseri: una visibile, che non permane nella medesima condizione: il corpo; l’altra invisibile che permane nella medesima condizione: l’anima.

 

Socrate va oltre dando una terza dimostrazione razionale dell’ immortalità dell’anima

Dimostra che il contrario non può mai accogliere il proprio contrario, dimostra anche che tale contrario non può nemmeno mai ammettere una cosa che porti dentro di sé un contrario a se stesso. Il 3 è dispari, il 4 pari. Il 3 non è contrario del 4 in quanto sono entrambi numeri; ma il 3 non potrà mai essere assimilabile al 4 poiché uno è dispari ed uno pari, e nonostante entrambi siano numeri  il pari ed il dispari sono tra sé contrari.

Se arriva il 4 il 3 deve o allontanarsi o morire.

Seguendo la stessa logica:

Cosa si deve generare in un corpo perché sia vivo? L’anima.

L’anima qualunque cosa occupi entra portandovi sempre la vita.

Cosa c’è di contrario alla vita?

La morte.

Come chiamo ciò che non accoglie la morte?

Immortale.

Allora l’anima è immortale.

“Quando l’uomo raggiunge la morte, la parte di uomo che è mortale, come è ovvio muore, ma l’altra parte che è immortale, sana e salva e incorrotta se ne va via lasciando il posto alla morte.”

 

Poi Socrate si chiede cosa sia l’Intelligenza.

E così ci spiega: quando l’anima si attacca molto al copro essa è attratta verso le cose che non permangono mai identiche a se stesse perché questa è la qualità del corpo ed in questo situazione l’anima si confonde; ma se l’anima sta in sé sola e per sé sola si eleva al Puro Eterno, Immortale, al Mondo Ideale e ivi rimane sempre nella medesima condizione poiché immutabili sono le cose alle quali si è attaccata, smettendo così di errare sia nel senso di sbagliare sia nel senso di vagabondare nel mondo non ideale.

Per Socrate quest’ultimo stato si chiama Intelligenza ed è propria del filosofo.

L’Anima raccogliendosi in se stessa tiene per vero “ ciò che essa da sè intende e da sè sola, quale che sia quell’essere in sè e per sé che essa di sè pensa”

Perché quindi non essere felice di tornare solo Essere?

Platone traccia così la via all’Essenza che è una via nell’Intelligenza, solo una vita dedicata alla conoscenza può unire l’Anima all’Essere.

E dimostra a tutti che la sua felicità in quel momento è ciò che di meglio un uomo saggio possa provare davanti alla morte imminente.

 

Questa via nell’intelligenza verrà arricchita da Aristotele, da Plotino, per codificarsi nel medioevo nella teologia Scolastica di Agostino e poi Tomistica di Tommaso.

Nella realtà del mondo ciò ha significato che ad un certo punto solo nelle Università e solo i Clerici, uomini di chiesa ed istruiti nel sapere secondo un canone prestabilito, potevano arrivare a disquisire di Dio e dell’Essenza.

Tutto il resto dell’umanità era tenuto alla pratica, ma non alla conoscenza.

 

Ma ecco che, mille trecento anni dopo Platone, Margherita scrive un libro dove Anima ha un dialogo con Amore e Ragione su cosa significhi unirsi a Dio e su come ciò avvenga.

Quello che fa Margherita, non è diverso da quello fa Platone; infatti nel mondo medioevale Dio ed Essenza sono ormai la stessa cosa perché in milleottocento anni di storia umana Deità ed Essenza si sono congiunti.

Margherita, fervente cristiana, arriva all’Infinito dall’interno di una religione.

Usando le parole di Platone, lei descrive cosa sia l’Anima, cosa sia l’Essere , e come l’Anima partecipi dell’Essenza.

 

Anche per Margherita l’essere umano è corpo ed anima, anche per Margherita, Dio è altro rispetto alla dimensione umana.

Anche Margherita sostiene che la vera conoscenza può avvenire solo attraverso il distacco dagli accadimenti della vita perché non vi è conoscenza in presenza di attaccamento all’oggetto che, per sua peculiarità, esalta alterità tra i due.

Mentre l’Anima di Platone, e del pensiero che da lui scorre nei secoli, per potersi unire all’Essere e vivere la propria immortalità, deve allontanarsi dalla vita, immergendosi nella conoscenza razionale, e poi abbandonare definitivamente il corpo nella morte, l’Anima di Margherita è Essere nell’Essere in questa stessa vita.

Questa donna unisce l’Anima direttamente a Dio senza mediazione alcuna, senza la maschia mediazione ecclesiastica, senza bisogno di conoscenza.

Dentro alle pagine del suo libro Umanità ed Essenza fanno la pace, non più uno e l’altro, non più uno nell’altro, non più bisogno di dimostrazione, ma solo uno indistinto: Amore, il Fine Amore.

Lei nega Dio come altro da sé e canta l’unione totale di sé con Dio, di sé con il LontanoVicino, come lo chiama lei.

La sua anima semplice “ è così chiara nella conoscenza che vede sé come nulla in Dio, e Dio come nulla in sé.”

Questa è l’immanenza di Margherita.

L’anima nell’Essere è annichilita, cioè annientata, perché la sua è una fusione totale con l’Essenza che perde il valore esistenziale dei due soggetti per lasciarne uno solo ove Dio e l’Umano cessano in sè per lasciare vita all’Essere della loro fusione.

“Tale anima arde talmente nella fornace del fuoco d’amore, che è divenuta propriamente fuoco, per cui non sente affatto il fuoco, poiché è fuoco se stessa, per virtù d’Amore che l’ha trasformata in fuoco d’amore.”

Margherita descrive nel libro come l’Anima arriva a ciò. L’anima dapprima vive la vita pienamente, nella completezza e nella mancanza, ma Amore la chiama e sette sono gli stadi per arrivare all’Essenza.

Nel primo stadio “l’Anima toccata da Dio, per grazia è spogliata della capacità di peccare. L’anima ama Dio ed il prossimo con tutta sè stessa, e questo sembra ad anima una grande fatica.”

 

Nel secondo stadio “L’anima tiene in considerazione ciò che Dio consiglia ai suoi speciali amici”. “La creatura s’abbandona e si sforza di agire al di sopra di tutti i consigli degli uomini nelle opere di mortificazione della natura, disprezzando ricchezze, delizie ed onori per compiere alla perfezione il consiglio del Vangelo, di cui Gesù Cristo è l’esempio.”

 

Nel terzo stadio “l’Anima considera se stessa nell’affetto d’amore dell’opera di perfezione nel quale il suo spirito è acuito da un fervente desiderio dell’amore di moltiplicare in lei tali opere; tale cosa è compiuta dalla sottigliezza conoscitiva dell’intelligenza del suo amore, che non sa offrire al suo amico, per riconfortarlo, altro che quello ch’egli ama … Ora accade che la volontà di questa creatura non ama che le opere di bontà, per la sua fermezza nell’intraprendere magnanimamente tutte le fatiche nelle quali può nutrire il suo spirito …. e perciò non sa cosa donare ad amore tranne che fargli sacrificio di questo; infatti nessuna morte sarebbe per lei martirio se non l’astinenza dalle opere che ama, le quali costituiscono la delizia del suo piacere e la vita della volontà che di ciò si nutre.”

 

Nel quarto stadio: “ E’ quando l’Anima è tratta, per altezza d’Amore al diletto di pensare nella meditazione e abbandonata da ogni fatica esteriore e dall’obbedienza ad altri grazie all’altezza della contemplazione …. Eh, non c’è da meravigliarsi se tale Anima è sopraffatta, poiché Amore grazioso la rende del tutto ebbra da non permetterle di rendere a lui, per la forza con cui Amore la diletta … grande chiarità d’Amore le ha talmente abbagliato la vista che non le lascia vedere niente, oltre al suo amore. Ed in questo ella si inganna …”

 

Nel quinto stadio: “il quinto stadio è quando anima considera che Dio è, lui attraverso cui ogni cosa è, e che lei non è, e da lei quindi nessuna cosa è. E queste due considerazioni le danno un meraviglioso stupore ed ella vede che è tutta bontà, colui che ha messo libera volontà in lei, la quale non è se non nella totale malizia ….”

 

Nel sesto stadio: “ il sesto stadio è quando l’anima non vede affatto se stessa, qualunque sia l’abisso di umiltà che ha in sé, ne vede Dio, qualunque sia l’altezza della sua bontà. Ma è Dio che si vede in lei, nella propria divina maestà che illumina di sé quest’Anima, tanto che essa non vede nulla che esiste, tranne Dio stesso, e per questo elle non vede se non se stessa ….”

 

Nel settimo stadio: esso “ custodisce in sé Amore, per darcelo nella gloria eterna, e non ne avremo conoscenza finché la nostra anima non avrà lasciato il nostro corpo”.

 

Il sesto stadio ove l’anima e annichilita in Dio e Dio è l’Anima avviene dentro alla vita.

L’Anima annientata mette la vita oltre il desiderio alle opere di bene, oltre alla certezza delle virtù oltre allo spirito di contemplazione e la depone come un seme nel centro dell’Essere, nel centro di Dio e rende l’Eterno completo solo nel momento in cui fonde se stesso all’Umano.

 

“Se conosceste perfettamente il vostro niente, non fareste niente, e questo niente vi darebbe tutto.” “Io sono, dice quest’Anima, e sono e sarò sempre senza venir meno, poiché Amore non ha nè inizio né fine né limiti, ed io non sono che Amore.”

“Non fanno queste Anime niente che non piaccia loro, e se lo fanno tolgono a se stesse pace, libertà e nobiltà. Poiché l’anima non è affinata, se non quando fa quello che le piace e non ha rimorso a fare quello che le piace …. Poiché è caduta dalla grazia nella perfezione dell’opera della Virtù, e dalle Virtù nell’Amore, e dall’Amore nel nulla, e dal nulla nella chiarezza di Dio.”

“La Pace di tale vita nella vita divina non consente di pensarla, né di dirla, ne di scriverla, tanto l’Anima è in questo Amore senz’opera corporale, senz’opera di cuore, senz’opera spirituale: per opera divina ha adempiuto la legge.”

 

L’anima di Margherita fonde Attributo e Potenza, significato e significante, Uomo e Dio nel momento in cui perviene al ultimo termine dell’Essenza che è un momento che appartiene alla vita. Margherita canta una vita nell’Essenza e per capirla fino in fondo bisogna leggerla perché non è razionalmente raccontabile.

Fondendo Umanità e Deità, vuoto e pieno, disperazione e felicità, mostra la sua strada alla conoscenza che diventa tale avendo smesso ogni volontà di sapere nel varcare la soglia del Sapere stesso.

“Quest’anima venne dal mare ed ebbe nome; e di come rientra nel mare e perde così il nome, e non lo ha più, tranne quello di colui in cui è perfettamente trasformata; ossia nell’amore dello sposo della sua giovinezza, che ha trasformato la sposa tutta in se stesso. Egli è, per cui anche’essa è, e ciò a lui basta a meraviglia, e questi è l’amore gioioso, per il quale ella è amore; e ciò la diletta” … “ e questo divino amore genera nell’Anima annichilata, nell’Anima affrancata, nell’Anima chiarificata, sostanza eterna, fruizione gradita, congiunzione amorevole … tale unione la mette in un essere senza essere, che è l’Essere.

 

Quella di Margherita è una Essenza nella vita fatta di atti, pensieri, bisogni e desideri, che da questi non si fa imbrogliare in nulla che sia più piccolo che Dio; che l’Infinito.

 

Margherita come Socrate, non si difenderà dalle accuse, non professerà alcuna parola durante tutto il processo dell’Inquisizione perché la morte per lei come per lui non è che un accadimento della vita che nulla toglie alla Vita, che nulla può togliere alla Felicità.

 

Leggere Platone è come scoprire briciolina per briciolina Anima e Essenza.

Leggere Margherita è essere raccolta dall’Anima e venir fagocitata con lei nell’Essenza di Amore.

 

E l’immagine della lunga fila ferma di camion militari che in Bergamo aspetta di trasferire via dai luoghi della loro vita e dei loro affetti tutte quelle salme sole non brucia più perché la morte ha significato nella vita.

 

Il mio giardino mi ha regalato queste due Ortensie dal petali tinti di Eterno, di Infinito, di Conoscenza che nessun altro luogo del mondo avrebbe potuto mostrarmi.

Senza coglierle, né toccarle per non sgualcirle, le ho porse a voi sotto forma di racconto.

“Fedone” di Platone, Atene 387 a.c. circa

“Lo specchio delle anime semplici” di Margherita Porete, nord della Francia 1290 d.c. circa

 

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Il libro

Se lo girava tra le mani con movimenti a metà tra il riverente e l’urgente, come quando si sa di avere un tesoro tra le dita che potrebbe rompersi in un istante. A palmi aperti accarezzava con i polpastrelli la figura dipinta in copertina attardandosi un poco sulle lettere che componevano il titolo poiché provava un piacere tattile nell’accarezzare un tale spessore di parole umane. Mise il libro in verticale e passò i pollici su e giù sulle pagine ingiallite dal tempo sentendo il solletico della cultura. Le sue dita stavano sostenendo tutto il pensiero umano raccontato in una storia. Lei provava meraviglia. Era arrivato per posta; un libro già usato, carico delle emozioni di chi in precedenza lo aveva posseduto. Così la donna aveva comprato non solo la storia della filosofia, ma anche la vita di chi con lei aveva passato la notte. Aprendolo a caso, si accorse di poter leggere accanto alle parole stampate quelle appuntate da sconosciuti che, prima di lei, avevano amato lo scorrere del pensiero narrato. Una firma in blu che il tempo aveva spostato verso il porpora; Eugenio. Di Eugenio ora lei sapeva che era nato nel 1972 e che per un certo periodo della sua vita aveva amato i riccioli sulle “i” e l’ Etica di Spinoza. Un amore leggero, tremulo, che quasi ha paura ad appuntarsi i concetti perchè non suoi. Sicuramente un amore obbligato e poi velocemente dimenticato. A lei faceva molto strano una firma così abbondante in confronto alla secchezza delle linee si sottolineatura e alla leggerezza delle parentesi laterali tracciate; e poi gli asterichi, tutti quegli asterischi a fianco dei capitoletti, quasi a dire: ” fatto” ” studiato” “andato”. Sì forse Eugenio aveva anche perso tempo in quel libro. Certo è che dentro a quel libro c’erano tutti i filosofi, c’era l’autore e c’erano i lettori passati. Ora lei poteva far sua tanta abbondanza di menti e parole. Il libro proveniva dal passato, quasi remoto, ma era arrivato nelle sue mani attraverso la più recente tecnologia, passando dal presente quasi futuro. Tale pensiero accresceva in lei l’entusiasmo per questo oggetto che possedeva dentro di sé il risultato ottenuto dal massimo sforzo delle menti di molti. Si abbandonò a lui, immergendosi nelle parole che la portarono in epoche estranee per restituirle concetti familiari, raccontati nel tempo che scorre. Dimentica del mondo esterno lei entrò nelle lettere delle parole, fin dentro al loro scheletro, e le fece ballare poi sulla propria musica fino a che la notte divenne chiara e nuove idee le nacquero in testa. Allora chiuse il libro soddisfatta e, paga, si addormentò. Sognò l’amore per le parole. Sognò il linguaggio, suo amante, con il quale giocava giochi proibiti. Sognò il tomo che le aveva portato in dono il frutto della passione nutrita dai sapienti del passato. Poi semplicemente sognò.

Happy Holidays

Happy Holidays, è scritto sulla quasi totalità delle vetrine del centro di Milano, una unica ne ho vista con un timido alberello e la scritta Marry Christmas in rosso. Camminavo per Buenos Aires ed un pensiero cresceva dentro di me. “Occidente senza palle!” Proprio nell’accezione che usano le donne quando lo dicono degli uomini. Quindi limitatamente con il significato di “pauroso”, ma ampliamente nel senso di “coglione incapace di essere uomo” e di “debole essere involuto non degno ” . Pare sia il politically correct che impone parole senza senso e senza storia e vieta parole pregne di ricordi, di atmosfera e di costume in nome del nulla laico. È la scelta di pochi fatta a tavolino con intenti ideologici poi abbracciata e coccolata dal mondo del commercio che spera così di aumentare i propri utili natalizi, ops scusate, holidariani. Alla setta dei nichilisti ideolocizzati, dei politically correct, ed al gregge dei commercianti che temono le parole che portano significati riparando nel niente voglio raccontare una storia.
C’era una volta, poco più di duemila anni fa, una giovane donna di nome Maria cui un giorno, in sogno, fu annunciato l’arrivo di un figlio di progenie divina ed in seguito a quell’annuncio il suo ventre iniziò a crescere. Lei ne conosceva molti di figli degli Dei perché sua mamma per farla dormire da piccola era usa leggerle Omero e le storie antiche. Ma nella sua cultura cose del genere non avvenivano più. Loro aspettavano sì un profeta salvatore, ma poteva mai essere che tutta l’attesa di un popolo si concludesse con il suo bambino? Lei non era che una semplice serva di quel unico Dio ai tempi amato da tutti e ora stava per diventare la madre di suo figlio. Che fare? Decise di fare la volontà del suo Dio e lasciò crescere quel bimbo divino dentro di sè. Andò in contro al suo destino e ne parlò al suo promesso, un falegname di nome Giuseppe. Giuseppe che era uomo buono ed amava molto Maria e pure molto amava Dio decise di accogliere e proteggere il frutto divino che stava crescendo dentro alla pancia di Maria. Era quasi giunto il termine quando venne loro imposto di recarsi a Betlemme per il censimento, così Giuseppe prese Maria, la caricò su un asinello ed assieme lasciarono Nazareth per Betlemme. Tutta la Palestina era in viaggio con loro, chi a nord chi a sud, tutti si stavano spostando. Arrivati a Betlemme non fu possibile trovare un luogo al chiuso per riposare perché erano già tutti occupati. Giuseppe guardò Maria e capì che il tempo era giunto. Si guardarono negli occhi ed ognuno lesse nello sguardo dell’altro lo stesso pensiero; si perché faceva paura diventare i genitori del figlio di Dio, ma loro erano due giovani forti si strinsero la mano e si dissero l’un l’altro: “sì”. Era, però, ora di muoversi, il bimbo arrivava. Giuseppe scorse una grotta poco fuori Betlemme, e vi accompagnò Maria. Vi fece entrare l’asinello ed un bue che pasceva lì intorno per scaldare quella dimora occasionale, ma tanto opportuna. Qui Maria, scaldata dal respiro dell’asinello e del bue, diede alla luce un bellissimo bambino che chiamò Gesù. Giuseppe uscì un attimo per riprendersi da tutte quelle emozioni e non riuscì a credere ai suoi occhi quando vide una quantità infinita di pastorelli venuti a rendere onore al piccolo nato da donna, ma figlio di un Dio. Lo avevano saputo guardando il cielo perché sulla grotta si era appoggiata una stella filante e loro avevano capito all’istante. C’erano anche tre dignitari stranieri vestiti a festa che portavano alcuni regali. Lì di fianco pascolavano tranquilli i loro cammelli mentre i dignitari si presentarono a Giuseppe. Erano Gaspare, Merchiorre e Baldassarre e portavano con sè oro incenso e mirra da donare al figlio di Dio bambino. Giuseppe, toccato da quel popolo di semplici e di re si fece da parte e lascò che le persone entrassero ad adorare il suo piccolo bimbo. Maria guardava quella inaspettata processione e poi abbassava lo sguardo innamorato sul suo bambino. Giuseppe guardava Maria felice dello sguardo di lei. Ad un certo punto un’espressione di profondo dolore velò il viso dell’amata; nessuno lo percepì, ma lui di lei conosceva ogni espressione e la cosa non gli sfuggì. Si chiese cosa mai avesse pensato Maria, ma lei non glielo disse mai. Nessuno sapeva ciò che lei sapeva. Il suo piccolo bimbo era venuto al mondo per imolare se stesso e regalare l’eterno all’intera umanità. Lui sarebbe vissuto solo trentatreanni e lei avrebbe dovuto contare gli anni a ritroso. Sapeva che le era dato di amare a tempo definito. Gli anni andarono ed il destino di quel piccolo bimbo divino si compì assieme a quello di Maria, di Giuseppe e di tutto quel popolo in adorazione. Lui venne crocifisso con le mani inchiodate e Maria dovette vivere la passione del figlio e lo scempio del corpo di lui, poi però visse anche la sua resurrezione. Così l’intera umanità ebbe a disposizione l’eterno. Da allora molta parte del mondo ricorda la nascita di quel bambinello. Lo fa addobbando un abete, creando un presepe, scambiandosi doni, andando alla Messa e scambiandosi auguri con due parole : Buon Natale. Lo fa perché sa che quel giorno di duemila e pochi anni fa al mondo fu fatto un regalo speciale. Il divino si fece umano, l’amore fu messo alla prova ed un bimbo morto poi crocefisso rese la vita eterna regalando all’umanità l’aldilà e la libertà di scegliere. E che la storia che vi ho raccontato appartenga alla realta’, alla religione oppure alla legenda non interessa. Interessa solo sapere di avere a disposizione l’infinito e poterlo festeggiare.
Sapete cos’è il niente in nome del quale sono imposte due parole senza senso? E’ solo un altro modo di percepire l’eterno.