Adolescenza

Cosa fa di un ragazzo un uomo? La barba? L’indipendenza? Il primo lavoro? La ragazza? Lui se lo andava chiedendo da un poco. Aveva fretta di diventare grande perché la sua era l’età in cui tutto si brucia, compreso calorie e tappe. Ogni suo movimento sprigionava la certezza del successo e l’entusiasmo di sentirsi unici e speciali, qualità, credo, intrinseca ai brufoli. Pensando se stesso nel futuro vedeva tutti i propri desideri realtà accaduta senza sforzo, per diritto, conseguenza del semplice essere nato. Era bello respirare di nuovo attraverso di lui tutta quella spinta alla vita ancora orfana di fatica e delusioni. Lei sapeva che l’ esistenza del proprio figlio si sarebbe ad un certo punto sporcata, come si sporcano tutte le vite, ma non temeva per lui, anzi gioiva di quella promessa di futuro perfetto assieme a lui. Lei, nel suo cuore, infatti, conosceva la risposta alla domanda del figlio. Sapeva che era già diventato uomo. Lo era diventato quando le sue braccia erano cresciute abbastanza da smettere di chiedere tendendosi verso di lei ed iniziando a ricomprenderla dentro di se’, abbracciandola teneramente, quasi a volerla proteggere. Lei però non lo disse mai al figlio perché era bello lasciargli la libertà di darsi qualsiasi risposta lui avesse voluto.

La forca

Era un ragazzo corpulento, dal fisico ingombrante, spesso più d’impedimento che d’aiuto, ma lui c’era abituato; così la sua lentezza non era mai stata un problema. Anche il suo cervello assomigliava molto a quel corpo negli aggettivi; lento e grosso riusciva solo a fare ragionamenti semplici. Elementare era la sua vita che veniva e andava a quel campo quotidianamente da una quantità di anni tale da non riuscire più a ricordarne il numero. Era inutile chiedergli l’età perché lui avrebbe risposto: “un poco di lune, signora, altro non so dirvi”. Aveva un sorriso gentile che si accendeva ogni tanto, spesso senza motivo apparente, dietro a chissà quale pensiero. Un giorno, mentre tornava stanco dal campo, fu violentemente fermato da uno sgherro a cavallo che se l’era presa con lui per una faccenda di precedenze dovuta al suo status sociale. Il ragazzone sapeva perfettamente quale fosse l’usanza e sapeva perfettamente quale avrebbe dovuto essere il suo comportamento, ma era stanco, molto stanco, così si innervosì, la sua mente si incendiò ed il suo braccio strattonò tanto forte le redini del cavallo da farlo imbizzarrire. L’uomo a cavallo ruzzolò a terra finendo col capo su una pietra. Morì all’istante. Il contadino lo lasciò li’ steso su quel cuscino di pietra, con il cranio aperto e tutto ritorto. Non voleva ammazzarlo, ma una volta visto morto ebbe un sussulto di orgoglio e reale ribellione e lo lasciò così sul terreno senza usargli le attenzioni che la società avrebbe richiesto in un caso del genere. I corpi dei signori dovevano venir ricomposti, stesi per lungo sul dorso con la spada tra le mani giunte sul petto. La morte era talmente compagna di vita a quei tempi da essere raramente considerata reato. Ma reato fu considerato l’atto irriverente del contadino che non ricompose il corpo dell’arrogante sgherro, morto per l’eccessiva stanchezza di un uomo semplice. Il podestà non dedicò più di cinque minuti del proprio tempo a questo caso ed il ragazzone fu mandato alla forca tra una coscia di pollo e un arrosto farcito.
Lo vennero a prendere una mattina presto e lo trovarono in piedi davanti alla porta della cella intento a guardare un ragno muoversi. Fissando il gruppo di compaesani venuti ad eseguire la sentenza il contadino fece un piccolo cenno col capo in segno di saluto come era d’uso fare verso le persone più anziane, ma appartenenti allo stesso lignaggio. Il gruppetto conosceva bene il ragazzotto perché per anni le loro schiene si erano piegate assieme su quel campo a lato del paese e per anni si erano scambiati gesti gentili, d’aiuto, durante le dure ore sotto al sole cocente oppure esposti al gelido vento. Così venne loro spontaneo, prima di posizionarsi per la processione, circondare lo sfortunato e, a turno, toccargli la spalla guardandolo dritto negli occhi. Un saluto che significava molto di più. E’ in quel momento che la mente semplice del villano comprese il suo reale futuro. Fino ad allora era solamente stata felice per gli abbondanti pasti ricevuti in prigione. In realtà i pasti non erano abbondanti, ma lui non era abituato a consumare cibo quotidianamente. Mangiava quando trovava; così quel povero, ma giornaliero boccone fornito dai suoi carcerieri gli era sembrato un lauto pasto. Il gruppo di uomini iniziò a muoversi in processione. Il ragazzone tentennò perché il suo corpo non aveva risposto all’ordine mentale di camminare. Era come un ammutinamento interno. Il corpo si era paralizzato mentre il cervello avrebbe voluto correre anticipando tutti gli istanti precedenti l’atto finale. Il bisogno di saltare tutto per arrivare là all’ultimo momento di vita e capire cosa ci sarebbe stato dopo gli venne come una spinta istintiva. Era un pensiero importante per la sua mente semplice, ma forse e’ un pensiero comune a ogni condannato che cammina al proprio patibolo indipendentemente da quanto sia abituato a pensare. Lui era dilaniato tra terrore e desiderio; mentre il corpo rifiutava ancora di muoversi, il cuore batteva all’impazzata e il petto si gonfiava vertiginosamente. Fece una fatica immane per obbligarsi a camminare e si sentì stanco, molto più stanco di quando si sdraiava sul giaciglio dopo le lunghe ore al campo. Riuscì solo a pensare che quella forse era paura pura, che si prova raramente nella vita, poi la sua mente si annebbiò mentre le gambe presero a camminare da sole. Le pietre delle case divennero vivide e lui vide l’umidità uscire da esse e mescolarsi al loro color grigio; la terra dei campi cominciò ad ondulare sotto al carico delle spighe d’agosto e lui dovette tenersi forte per non seguirla; i colori dei fiori iniziarono a spandersi oltre i petali quasi a sporcare l’aria satura di calore e lui si perse in quel labile confine. Poi la sua mente non registrò più nulla.

Laguna

Andar per palafitte è cosa rara in questa epoca. Ma le terre di laguna han fatto di tal pali privata fondamenta. Così accade d’incontrarli in ogni dove. Essi popolan le acque, vergini di sale, a mezzo busto asciutto e a mezzo busto viscido di alghe e ruvido di gusci. Aspettano il tramonto per ricordare all’uomo il limite infinito dell’orizzonte vuoto. Scope di navigazione e pali da coltivazione custodiscono nel legno la vastità del mare e la forza del lavoro. L’occhio vi si appoggia per riprendere il sospiro quando la bellezza, scritta col bagnato, trattiene il fiato umano. Il dialogo tra i legni, sconosciuto a orecchio assente, fa da contrappunto al canto delle acque. Ma è il silenzio che emoziona per l’insieme dei due suoni e a noi non resta altro che sostare in quel profumo di salmastro.

Meduse e gamberetti

L’acqua non era il suo ambiente, ma quella distesa di meduse e gamberetti, sparsa nel verde di laguna, aveva un tale richiamo su di Lei che semplicemente si trovò a scendere i gradini di legno e ad immergersi con la delicatezza che i suoi cinquant’anni ancora le permettevano. Si muoveva lentamente, solo i minimi gesti necessari a non annegare per non disturbare quell’andare di pesci. Le meduse si spostarono il tanto che basta per farle spazio e poi si ridistribuirono come se lei facesse parte di quelle acque da tempo. Non la temevano, non la attaccavano. I gamberetti, ancora di color nero, perché vivi e crudi, parevano pensarla come le meduse e semplicemente si aggiustarono un poco. Così lei trovò il suo posto in quel popolo di gelatina e baffi neri. Con la bocca a filo delle acque baciate dai raggi del sole di tramonto ed i capelli infuocati dai medesimi lampi, alzò i palmi verso la luce, ma sotto al limite liquido ed aspettò. Le meduse presero a passare sopra quelle mani rivolte alla luce e vi si adagiarono dentro forse a provare la stasi in palmo umano o forse senza nemmeno sapere il perché. Lei chiudendo le dita riusciva a toccare il dorso degli animali; e, ad ogni tocco, l’animale reagiva muovendo tutti i tentacoli fino a sfiorarla. Era un poco come se un essere fosse lo strumento musicale dell’altro. Mentre questa musica di corpi avveniva altre meduse e gamberetti la sfioravano ovunque nel corpo, come ad assaggiarla, per poi continuare nel loro moto subacqueo. Lei perse il senso del tempo dentro a quel concerto bagnato, gelatinoso e lucente. Tornò a se stessa quando il sole aveva ormai perso i suoi raggi e le acque si erano fatte nere e scure. Lasciò gli animali alle loro faccende notturne ed uscì dall’acqua. Pura vida.

Quattro sorrisi

Questa e’ la storia di quattro sorrisi tutti compresi nel tempo di un mese. Il primo arrivato con la luna piena dentro ad un pullman tra Orio al Serio e Milano. E’ un sorriso straniero che si concede di rado, ma e’ sempre presente nel scendere i gradini del mezzo quando la porta si apre in via Cadamosto. Quest’anno e’ apparso mentre le porte ancora non erano aperte. Ci siamo visti e quel viso bambino si e’ illuminato tutto per me. Un sorriso grande che racconta di amore e riconoscenza, ma che in quel momento era solo pura felicità di essere un cima a quei quattro gradini pronto per scenderli rapido e finire nelle mie braccia e nella vacanza italiana fatta di caldo, frutta e bagni al mare.
Il secondo sorriso e’ un sorriso adulto, ma mica poi tanto. Mi e’ saltato in braccio come una furia. Me lo son vista arrivare che quasi prendo paura perché inattesa era tanta irruenza. Urlava felice: “ devo dirlo a faccia di mamma, la mia è lontana ed io non resisto a tener tutto dentro perché sono troppo felice”. Così è toccato a me, per conto terzi, prendermi tanta felicità. Lui era estasiato per un 18 in statistica ed un 25 in altra materia. Ma era il 18 ha farlo volare. Ci sono voti che si rifiutano, e voti per cui invece si è grati. Chiunque nato umano sa che un 18 in statistica o anatomia o diritto privato oppure statica è manna dal cielo; si prende senza fare gli schizzinosi e lo si usa come rampa di lancio. Primo dei lanci è il gran sorriso da donare in giro! Lui si sentiva così leggero da non riuscire a tenere i piedi per terra e così saltava in aria come fa un palloncino pieno di Elio spinto dal vento. Mi prese tra le sue mani e, abbracciandomi forte, mi trascino’ lassù nel cielo blu. Tornando a terra io ho poggiato i piedi al suolo, ma lui, più felice che mai, con un salto balzo si è lanciato nelle braccia di un amico che in quel momento sopraggiungeva; ripetendo, con lui, l’acrobazia appena fatta con me e lasciando me lì felice e sazia a guardarlo.
Il terzo sorriso nasce dalla vera tensione da prestazione. Lui e’ un ragazzotto più bello del bello al suo primo esame. Quello di terza media. E’ sicuro e spavaldo per l’ottimo anno scolastico appena passato, ma e’ la sua prima volta e sente fortissimo la serietà della situazione e della commissione, schierata completa di preside e consigliere. Li’ tutti riuniti per il suo esame. Prima di entrare anche solo un lieve battito d’ala a lui vicino potrebbe farlo esplodere come la dinamite, ma lui tiene botta e nel momento medesimo in cui inizia a parlare davanti a un tale auditorio si placa, presente più che mai a se stesso e sostiene uno splendido esame. Il tempo di uscire e smaltire l’adrenalina ed eccolo il meraviglioso sorriso arrivato ad illuminare a giorno quel volto più bello del bello. E’ un sorriso forse un po’ frastornato, ma orgoglioso di aver dimostrato a se stesso e al mondo di saper gestire tale momento elevato. E’ anche un sorriso assai sollevato per aver regalato al passato la prova d’esame e per potersi ora godere ogni istante della vacanza d’estate. Questo e’ un sorriso che molte ore ha vissuto; l’ho visto spegnersi solo quando il sonno l’ha colto.
Il quarto sorriso e’ un sorriso assonnato, nasce da un viaggio lunghissimo di ritorno a casa dopo un anno di “Pura vida”. Lo ha acceso un occhio aperto a metà che di colpo ha trasformato il sonno in realtà. E’ un sorriso rotto in due meta’ perché dentro a tanta felicità per l’odore di casa ormai ritrovato c’è anche il profondo dolore per il paese, gli amici e quella nuova famiglia lasciati lontano. Loro hanno reso l’anno appena passato il più bello della sua vita arrivata a contarne di anni ben diciassette. In quel sorriso di felicità c’è poi anche dentro l’entusiasmo del nuovo inizio . La sua vita italiana riprende, ma con dentro il nuovo del Costarica e scuola, amici e famiglia dovranno accogliere questa grande ricchezza. Così quello e’ un sorriso che dice eccomi qua io sono pronto e voi? E’ un sorriso che chiede del nuovo e lui di sicuro lo riceverà.
Io credo che ricorderò questo mese di Giugno come il mese dei quattro sorrisi, ognuno portato da un motivo diverso, e ognuno incastonato perfetto dentro a una vita che sboccia.

Il soldato

Era passato un anno ormai dal giorno in cui due parole, dapprima appena bisbigliate dentro di sé, poi timidamente sussurrate ed infine urlate al cielo avevano cambiato la vita a quella generazione sfortunata cui lui apparteneva. “E’ finita…” “E’ finita?” “E’ finita!” Quel canto universale ebbe il potere di mondare il suo corpo dell’adrenalina, da anni unico sussidio alla sua sopravvivenza in quel mondo di morte. Lui, uomo fuso alla trincea, finalmente si sentì libero, libero di non dover resistere. Si guardò intorno in quei luoghi che non riconosceva perché così ostili alla vita e, per la prima volta, si permise di cercare i segni dell’autunno, la natura al posto della forza nemica. Non era facile lasciarsi andare alla tranquillità, l’abitudine era altra. I giorni passarono e la trincea si allontanò. Quello sguardo dato alla terra tra buchi e i fili spinati, lasciò il posto a un’improvvisa voglia di vivere. Tutto ora era amico, tutto parlava di futuro. Là al freddo del fronte non c’era tempo per distrarsi con pensieri di vita, c’erano solo i compagni, carne pronta da macello come lui; ma ora, ora tutto era cambiato e, nonostante l’autunno, il mondo era in fiore ai suoi occhi. Tornò persino ad appoggiare lo sguardo su una ragazza, così solo per avere in cambio un sorriso. Lui la guardò, lei rispose agli occhi di lui e, per la prima volta in molti anni, nessuno dei due chiese all’altro un poco di vita per poter sopravvivere; furono liberi di potersi semplicemente sorridere e si sorrisero a lungo. La vita ricominciava, lentamente, ma ricominciava. Ora a distanza di un anno, il fermento dei primi tempi aveva lasciato il posto ad altro, perché non si poteva andare avanti ignorando ciò che gli occhi avevano visto ed il cuore provato. Era stato tanto vicino a morte e dolore da neutralizzare ogni angoscia; lui conosceva la paura così bene da averla resa innocua. Aveva anche dovuto neutralizzare pietà e rimorso. Ogni atto della vita passata era avvenuto più e più volte e questo bastava a dargli il rango di umano. Lui, oggi, era un Uomo che conosceva tutto perché aveva vissuto gli estremi. Sapeva tutto perché aveva dovuto staccare l’atto dal giudizio e questo lo aveva reso molto simile a un dio. Lui questo lo percepiva; così erano giorni ormai che andava pensando a quando, da bambino, aveva chiesto alla sua maestra delle elementari, una suora sincera, di quelle che amano onestamente e che pertanto la dottrina non aveva indurito, cosa sarebbe successo se lui fosse mai riuscito a vedere Dio. Lei gli rispose con quel suo dolce sorriso che sarebbe semplicemente morto perché una volta conosciuto Dio non ci sarebbe più stato spazio per nulla. La vita si esauriva in Dio. Non in realtà lei disse: “ La vita, conosciuto Dio, diventata Dio Ella stessa.” Queste parole gli martellavano il cervello perché, oggi, lui le riconosceva vere. Era stata la guerra a mostrarglielo. Lui si era accorto di aver consumato nel tempo di pochi anni ogni tipo di esperienza, forzato dagli eventi era entrato nei più reconditi anfratti dell’essere umano e ne era uscito vivo con un impressionante bagaglio di vita; non era impazzito e nemmeno si era lasciato andare; era cresciuto a dismisura tanto da eguagliare Dio. Andava così pensando cosa potesse ormai offrirgli la vita; stava forse sperimentando la morte annunciata dal sorriso della sua maestra suora perché lui si era alzato in piedi ed aveva guardato Dio dritto negli occhi? A portarlo a cospetto dell’essere supremo erano state le persone morte, uccise dalla sua baionetta; era stata la notte passata a fianco del cadavere del suo migliore amico, irrigidito dal freddo e dall’assenza di vita che però lo aveva comunque scaldato in quelle ultime ore assieme; erano stati gli occhi terrorizzati della ragazza tenuta prigioniera così a lungo. Era forse questa la morte descritta dalla sua maestra? Il vuoto creato dal troppo, che dopo aver portato pienezza passava oltre e diventava qualcosa che non apparteneva all’umano? È così che la vita diventa Dio Ella stessa? Questo lui andava pensando a un anno dall’ “E’ finita!” e in quel momento la sua vita era diventata piatta perché avendo provato l’estremo ed il suo opposto, ora non sapeva più cosa fare di se stesso. Al di là di Dio non c’era pienezza, c’era il nulla da abitare, e la sua natura umana si rivoltava al vuoto perché era destinata all’esperienza.

La svolta

Lei era a una svolta. Doveva decidere come trattare il futuro, ma per farlo era necessario dare significato al già vissuto. Non sapeva decidersi se il passato, che si aggiungeva al passato, fosse altro seme cui consentire di morire per lasciar, finalmente, nascere il campo di grano d’agosto ancora in esso contenuto solo in idea; oppure fosse una litania sempre uguale a se stessa, lì posta perché lei, annoiata e vinta, finalmente capisse. Quante volte aveva opposto entusiasmo, anzi rapimento ai fatti della vita che però la rispedivano sempre e comunque là ai suoi box di partenza e forse anche più in dietro? Era come se questa realtà non avesse avuto occhi per lei, non c’era stata chiamata nè scelta. L’esistenza non l’aveva presa ad amante e lei era stanca di corteggiare un’essenza così dura di cuore. La vita l’aveva destinata all’anonimato e alla solitudine. Proprio lei che urlava e cantava d’amore. Così ora si trovava a decidere chi dovesse contenere le promesse, se il futuro oppure il passato. Se la promessa apparteneva al già stato esso non aveva mantenuto il patto fatto in giovinezza ed il futuro ora appariva scarnificato; ma se la promessa fosse invece appartenuta al futuro poteva forse il presente contenere un nuovo voto di avvenire? Era come se lei dovesse scegliere la vita oppure la propria persona; scegliere la vita significava aver affidato le promesse al passato e allora chiudere, tirare i remi in barca e considerare il poi come un tempo che si sarebbe riempito di vuoto e noia. Decidere di scegliersi significava non sentire più il bisogno di essere notata da altro, ma semplicemente riconoscersi da sé, e questo avrebbe permesso al futuro di contenere ancora la promessa di felicità. Lei però non sapeva se sarebbe riuscita ad essere più forte della vita. Forse il suo destino era semplicemente quello di cantare la sconfitta umana, una voce tra tante. C’è eroismo nella rinuncia? Dove l’uomo gioca la propria umanità? Nell’accettare l’ineluttabilità del proprio destino segnato dal passato oppure nell’accettare quella forza interna che spinge ad andare contro la vita già vissuta con una visione di avvenire diverso? Dove sta’ la vera risposta da dare alla vita? Lei questo andava pensando….

Mio diletto

Ho ricevuto la vostra missiva, mio diletto, e non sapete con quale piacere ho gustato le vostre parole. Esse entrano nelle mie stanze nei modi sempre rocamboleschi coi quali ardite arrivare a me. Quasi voi vogliate lasciare al caso la consegna di ciò di cui mi scrivete. È per questo che mi siete caro, mio diletto, perché mai avete la pretesa che io riceva le vostre attenzioni. Trovo una tale libertà in questo da spingermi a pensare che voi non ricerchiate la mia compagnia per una qualche manchevolezza della vostra vita, ma che al contrario la passione che vi porta a frequentare la mia più profonda intimità sia espressione dell’abbondanza della vostra vita. Avete scritto che volete un mio pensiero sull’idea che io completi voi e voi completiate me. Nulla di più sbagliato, mio diletto. Sì, lo so che da Platone in poi questo è divenuto il pensiero comune, ma no! Sia io che voi sappiamo la falsità di questa affermazione, solo che al mio cuore ciò è palese, mentre al vostro, mio diletto, ancora no. Lo è però al vostro corpo che mi ama nella coscienza di sapere sé essere completo. Vi prego, mio diletto, lasciate che anche la vostra mente veda la libertà che consegue dall’amarmi sapendo di essere voi stesso essere compiuto che in nulla abbisogna di me. Lasciate che la vostra mente possa godere di me come ne è capace il vostro corpo. Ammetto, mio diletto, che larga parte della vostra vita come della mia sia stata spesa nella ricerca della più profonda felicità, e non vi stimerei come vi stimo se non avessi percepito questa potente spinta in voi; il vostro viver ed il mio mi confermano che io e voi abbiamo incontrato in noi stessi i migliori compagni della nostra vita. La metà tagliata che tanto fa ricercare Platone nelle parole di Aristofane a uomini e donne, ognuno di noi stessi l’ha trovata in sé. Sì, mio diletto, io e voi siamo due esseri completi che si cercano per godere dell’altro senza pretendere di esserne completati. Io e voi non ne abbiamo di bisogno. La passione che ci infiamma i corpi porta all’estasi perché di nulla è carente, l’ardore delle nostre conversazioni ci spinge ogni giorno ad avvicinarci perché non richiede conferme. Io vi amo, mio diletto, e tremo per voi quando vi vedo invischiato in quel tipo di amore che ancora dipende dall’altro, ma ancora più temo per voi quando siete vittima di un amore del genere, ma amandovi io nella vostra completezza, appoggio lo sguardo su ciò che al momento vi sazia la vita e lo faccio mio perché vi voglio comodo quando raggiungete le mie stanze di edere adornate. Sappiate, mio diletto, che sempre io vi sarò compagna senza invadere la vostra vita con ciò che manca nella mia. Vi sarò compagna per ciò che esiste nella vostra.  Io sono cosciente di aver già conquistato ogni singolo pezzo di me stessa donna ed anche ogni singolo pezzo, mancante, di me stessa uomo. Per questo io sono autonoma e in nulla dipendo da altri esseri umani. Aristofane ha ragione quando dice che trovata l’altra metà gemella si genera la specie cui si appartiene; ed io ho generato me donna, come voi, mio diletto, avete generato voi uomo.

Mai tra noi ci saranno i silenzi che nascono dal fastidio di comportamenti pretesi a completamento, ma nemmeno mai ci sarà tra noi la potente esaltazione che nasce nello scambiare richieste per attenzioni. No mio diletto tra noi ci sarà solo la passione dei corpi ed il proficuo dialogo di due menti brillanti. Condivideremo parte della nostra vita, così, nei modi che capiteranno, rocamboleschi o scontati a seconda dell’occasione, ma ognuno di noi avrà la libertà di vivere se stesso prima di vivere l’altro. Questo sarà sempre ciò che mi lega a voi ed è per questo che vi amo, mio diletto, e con voi amo ciò che riempie la vostra vita. Vi lascio, come al solito la chiave dell’uscio sotto al vaso in terracotta dalla forma di anfora. Usatela a vostro piacere.

I due vecchini

Qualcosa non stava girando giusto tra quelle tre macchine. Era come se l’ultima stesse volontariamente spingendo le altre due giù dal dosso. Che strana impressione, pensò, guardando con la coda dell’occhio dentro l’ultima auto ove un vecchino e una vecchina chiacchieravano amorosamente. Passò oltre e dimenticò l’accaduto. Qualche giorno dopo rivide la stessa scena, ma questa volta le macchine erano parcheggiate ed una era la sua. I due vecchini, palesemente, stavano cercando di far scivolare le due macchine ferme avanti a loro spingendole a piccoli colpi di cofano.” E…no, questa non è un’impressione, lo stanno facendo sul serio!” Per evitare di perdere la propria auto giù per la montagna lei si fiondò sui due vecchini. Li fermò parandosi davanti a loro e, non proprio calma, chiese perché stavano cercando di distruggere quelle auto spingendole giù. Ma i vecchini, che erano veramente vecchini, le dissero che non avevano capito una sillaba del discorso perché’ erano totalmente sordi. Così lei dovette ripetere ogni singola parola urlandola come un’ossessa. Sentendo se stessa urlante e sillabante le venne da ridere tanto che quasi non riuscì più a parlare. Dopo tanto urlare sillabare e ricominciare i vecchini finalmente capirono il senso di quel ridere e sbracciare e candidi come bambini risposero: “ E’ perché siamo vecchi e invidiamo le cose giovani; non siamo delinquenti. Vieni a casa nostra e te lo dimostreremo.” Non fecero in tempo a finire la spiegazione che due energumeni si affiancarono a lei forzandola a seguirli. Andando lei pensava: “Caspita qui finisce male per me. Perché li stai assecondando?” Per la prima volta nella sua vita si trovò in una situazione ai suoi occhi senza via di uscita. Il futuro le appariva pericoloso ed obbligato. Si sentiva immobilizzata e reagire era impossibile. Arrivarono alla casa e lei fu forzata ad entrare. Solcata la porta si trovò catapultata in un grande ambiente dal gusto raffinato, solo non poco impolverato. Un locale in doppia altezza pieno di oggetti d’arte e quadri e colori e raffinatezza. I due energumeni risultarono essere i figli grandi dei due vecchini e dentro a quella casa presero un’aurea nobile e gentile come i cavalieri di antica data. La casa si animò di persone grandi e piccine. La discendenza. La casa era ricca di scale che ora i vecchini non erano più in grado di fare; quattro gradini, un corridoio, altre scale e poi un muro, là la loro stanza. Un piccolo letto matrimoniale, di quelli per veri amanti, dove non c’è spazio per sonni indipendenti, pareva schiacciato sulla parete, quella lunga a chiusura del luogo notturno di quelle nozze. Una casa dentro alla casa, ove la progenie era riluttante ad entrare per non disturbare la purezza di quel sentimento antico. Ma i vecchini erano veramente vecchini, e non riuscivano più ad entrare nel loro nido d’intimità, troppe le scale. Così nessuno abitava più quel luogo d’amore. Tutta la casa mostrava, in realtà, i segni del tempo vecchio, quando le forze si contraggono dentro alla propria sopravvivenza e non c’è più spazio per nulla oltre. I vecchini parevano infastiditi anche dalla larga progenie che si era piazzata in casa un poco per dovere d’affetto, un poco per profumo di futuro possesso. Per questo i due vecchini ogni tanto scappavano e lasciavano che il loro fastidio per la vecchiaia diventasse rabbia per il mondo giovane trovando sfogo nella spinta innocente del cofano in fronte fin giù dal dirupo. Per loro era un poco come un sacrificio all’abisso per saziarlo prima dell’estrema richiesta.

L’uomo d’oriente

Alzò gli occhi dal libro quando la sua spalla sinistra aveva avvertito il potente spostamento d’aria. Era così immersa nella lettura da essersi momentaneamente trasferita sulla westernland, là dove Einstein seduto, affrontava l’oceano per l’ultima volta, senza però saperlo. Così il ritorno della sua coscienza alla stanza ove era seduta fu doppiamente traumatico; primo perché fu di colpo obbligata a lasciare il profumo dell’acqua marina misto a gasolio che stava respirando a fianco della grande mente, secondo per via di quella massa nera, responsabile dello spostamento d’aria, che lei proprio non si aspettava. Appena il suo occhio si riabituò alla luce artificiale della stanza, fu in grado di vedere la causa di quel ritorno forzato alla realtà. Erano stati due uomini più alti del normale e più larghi del normale che si erano mossi di scatto perché chiamati al banco dell’accettazione. Indossavano una cuffia nera che si apriva in un ampia tunica. Erano neri dalla testa ai piedi. Questo la fece sobbalzare, perché piombò dal soleggiato blu cobalto dell’oceano nel nero profondo delle tuniche esasperato dai neon bianchi. Quei due uomini erano così diversi da tutto il conosciuto che magnetizzarono il suo sguardo e lei dimenticò l’oceano. Le cuffie aderenti nascondevano le orecchie lasciando che le lunghe barbe grigie divenissero protagoniste in quei volti anch’essi scuri. Vi erano preziosi ricami d’oro sulla cima dei loro capi incappucciati. Piccoli simboli più volte ripetuti erano ordinati dentro a spaziature anch’esse contornate ad oro. Forse significavano uno stato, a loro sicuramente familiare, ma per lei erano solo regali ricami. Il più grosso e più nero dei due portava poi una luccicante catena d’argento con attaccato un grosso ciondolo incastonato da piccoli diamanti rossi. Una corona, anch’essa diamantata, fungeva da passante tra la catena e il ciondolo, ma era anche il copricapo di Maria che assieme al piccolo Gesù occupava la superficie non d’oro del ciondolo. Erano una Madonna ed un bimbo sorridenti avvolti nei loro abiti rossi e blu. Anche la lingua da loro parlata produceva ricami sonori simili agli addobbi d’orati ed ai rubini delle vesti. Lei si chiese com’era possibile che l’arabo cristiano fosse alle sue orecchie assai piu’ armonico dell’arabo mussulmano; poi, pero’, penso’ che forse quello non era arabo. I due uomini apparivano regali perché così esotici e perché così agghindati. Lei rimase a guardarli. Si avvicinarono al banco dove la signorina iniziò a dare loro indicazioni su come sarebbe avvenuta la terapia. L’uomo con il ciondolo prese una croce di legno da una tasca, era una croce greca, anch’essa preziosa. Se la portò alla bocca ed iniziò a mordicchiarla. Più la signorina parlava, più lui mordeva la sua croce. Lei vide l’uomo che dentro alla sua veste regale stava comunque nudo davanti al suo futuro ignoto e incerto. Tornò sulla nave da Einstein e lo trovò seduto, solo e muto con gli occhi fissi nel tuorlo dell’uovo che stava mangiando mentre tutti gli altri passeggeri erano scesi a terra. Era anche lui nudo e impotente davanti alla fuga dall’Europa nazista. Lei si trovò, suo malgrado, tra due uomini, così diversi, così distanti, ma così uguali davanti a un’istante tanto simile della loro vita.