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Non uccidete la madre

Una futura regina al suo terzo figlio che a tre ore dal parto appare al mondo fresca come una rosa, bellissima nella sua perfezione di donna regale, ma cancellata nella sua fatica di donna che genera vita.
La compagna di un rapper che, a un mese dal parto, viene esaltata da voce di donna perché nel suo corpo non mostra già più alcun segno della maternità appena conclusa.
Due parti famosi. Due maternità uccise. Sacrificio umano al Dio politically correct.
In termini assoluti non è grave perché due e’ un numero tendente a zero se comparato alla quantità di femminile che popola il mondo.
E forse non è nemmeno grave perché ogni sacrificio ha in sè la potenza stravolgente dell’oggetto sacrificale che prende forza dalla propria esecuzione per divenire valore assoluto dentro al martirio.
Come l’altare a forma di bocca fagocitante mangiava vergini bruciandole nella sua saliva lavica per tenere buono il Dio vulcano. Così il palcoscenico moderno sbianchetta l’imperfezione della madre che genera vita, per esaltare la perfezione della donna che non ha generato.
La regola tribale, con radici nella paura e fiori nella volontà di sopravvivenza comune, vive ancora fiorente nel mondo contemporaneo non più in grado di sostenere la visione della vita che deforma la vita per vivere.
Il parto proietta infatti la donna dritta nel mondo della fatica che diventa elemento strutturante del suo corpo e della sua vita.
È la fatica che, negando la donna, fa nascere la madre e le permette di assolvere il proprio ruolo privato di accudimento. Il passaggio da donna a madre è un dare la vita nei due significati di sacrificare sé e generare altro da sé.
Questa è la maternità dentro alla quale l’essere umano si sviluppa. Questo è il significato di mamma.
Ogni madre nella maternità rivuole poi indietro la donna che sa di essere stata aprendo la strada al più grande miracolo che l’umano sia in grado di fare. Ella infatti, nel tempo, riesce a mondarsi dalla fatica e a riappropriarsi di tutta se stessa; ed è permettendo a se stessa di tornare donna che regala la libertà di Essere al propria progenie.
La donna che sacrifica se stessa per dare la vita, autorizzandosi a generare fino nel profondo del significato crea un nuovo umano e si rinnova donna arricchita dall’essere anche madre.
Ma questo e’ un processo che richiede anni. La madre deve potersi esprimere come madre ed essere riconosciuta tale dal mondo esterno affinché possa, ella stessa, esistere madre nell’intimità.
La società dovrebbe così farsi uomo e saper proteggere questo passaggio che si esprime in un corpo deformato, nella stanchezza cronica, nel ripiegamento totale verso la nuova vita; nell’incapacità di essere lavoratrice a tempo pieno.
La società dovrebbe cullare la madre, che ha ucciso la donna sapendo che col tempo genererà vita altrui tornando a se stessa donna.
Ma questo è un valore esplosivo come un vulcano e fa paura perché non controllabile e così il mondo contemporaneo ha spolverato di nuovo l’altare. Vi imola madri esaltandole donne, ma così facendo toglie all’umanità le mamme e alle donne la completezza.
Genitore 1, genitore 2. Punto.

Un tranquillo Lunedì di regate

Come si fa a rimanere concentrati quando in giro per l’Italia ci sono gli Osa People a regatare?
Io sono seduta alla mia scrivania, ma il mio whattsup starnutisce in continuazione. Gli Osa Laser People sono impegnati a Dongo, i ragazzi dell’Osa Bug Team invece a Livorno: le condizioni meteo non delle migliori, così non si parte. Poi la capitaneria da l’ok, i Race in acqua e contemporaneamente anche i Laser sul lago hanno il loro “go” e il mio whattsup letteralmente impazzisce. Io tifo per tutti, perché li guardo allenarsi e soprattutto perché li vedo rientrare in terra ferma con quei sorrisi appiccicati dall’acqua dolce sul viso che la fatica non riesce a sporcare. Ognuno di loro ha, così, ricevuto un sonoro bacio di buona fortuna da Mamma Orza, ma Mamma Orza oggi ha in acqua, a Livorno, il suo cucciolo, solo, perché anche Riccardo, l’allenatore, ha lasciato fischietto e berretto ed ha indossato la muta. E’ tra i laseristi per diventare campione. La squadra Bug è affidata a Giuseppe e Angelo, i due papà tuttofare, ma in acqua i ragazzi son soli. A loro tutte le decisioni di tattica e strategia. Ieri Valerio è stato bravo un primo e un quarto, ma anche Mirna di Caldè è stata brava, un quarto e un primo; per le regole della vela sono primi pari merito, ma la vittoria andrebbe a Mirna se la chiudessimo qui, perché ha fatto meglio nell’ultima regata. So quanto Valerio ci tenga ad avere la possibilità di ribaltare il risultato ed ora può farlo perchè l’Intelligenza è stata ammainata. Mamma Orza lo sente determinato e concentrato, ma è pur sempre il suo cucciolo e lei va in tensione così lontana da lui; da mamma vorrebbe una vittoria per quella testa bionda. Così freme alla sua scrivania, per tutti, ma soprattutto per lui. Si deve distrarre per non influenzare con pensieri vibranti la concentrazione ed il divertimento della loro regata e così vi racconta dell’ultimo allenamento Laser quello prima della regata, per placcare la mente e regalare a suo figlio la libertà di fare quello che vuole.
Chi non è pratico di vela non sa quanto faticoso sia andare in Laser, ma è uno sforzo fisico non da poco ed i sei laseristi in allenamento erano arrivati fino alle scogliere di Piona dove la squadra Bug stava regatando, i grandi a tifare dall’acqua per i piccoli! Una lunga poppa con onda al giardinetto. A regata conclusa, Riccardo da il fischio di allenamento per le bianche vele e i laser si raggruppano tutti sotto alla scogliera. L’ordine è: “ partenza a coniglio e poi virate libere nello specchio d’acqua tra la montagna e il gommone. Circa quindici metri dove i sei laser devono navigare assieme. Ma Riccardo restringe il campo man mano che i laser risalgono finchè diventa una virata continua per evitare di schiantarsi o di uscire dal campo di allenamento. I più giovani resistono finchè possono, ma il vento sotto costa è forte, c’è onda, sono numerosi e loro sono ancora leggerini per queste vele, così, più volte, li ho visti saltare come gatti, oltre la falchetta, sulla deriva per evitare la scuffia … finchè non ne hanno avuto più … l’unico che non molla è Lodo, lui, un passato sui 29er, un fisico nel pieno della potenza, una tecnica invidiabile, porta a termine l’esercizio, ma appena i due fischi annunciano la fine della fatica si sdraia sul suo laser che diventa un giaciglio ove riprendere fiato e forze. Lodo è sfinito! Un attimo di riposo per tutti. Il mio whattsup ha ristarnutato, il vento a Livorno è calato, fanno anche una seconda prova, ancora non ci sono risultati. I sei laseristi pensano di rientrare dopo questo esercizio, perché ora li aspetta un’ora e mezza di bolina potente con onda in prua, ma Riccardo fischia di nuovo e chiama la Poppa con orzate e poggiate. Ci mettiamo attaccati alla poppa di ogni singolo laser che deve orzare o poggiare al fischio. Serve per imparare a fare la S e diventare dei treni in questa andatura; così uno a uno i ragazzi eseguono e io li vedo cazzare, lascare, appiattire, inclinare in una danza la cui armonia è solo un loro segreto. In gommone raccogliamo gli spruzzi della loro fatica che imbizzarrisce le acque. Di nuovo doppio fischio, l’allenatore ora li lascia rientrare, noi con il gommone torniamo a festeggiare l’Osa Bug Team, ci rivedremo tutti a cena davanti a pollo e patate cucinate da Martino. Ancora nulla dalle regate. Vado a fare la spesa, star ferma mi è impossibile… Whattsup ha starnutito di nuovo: ci sono nuove! Una regata magica: primo Enrico, secondo Valerio, terza Alessia, quarto Gregorio, Sesto Francesco …l’osa team è tutto qui! Bravi ragazzi … ora la seconda prova… io esco, non reggo!…ancora uno starnuto … ecco la classifica a fine regate…. Valerio è primo! Enrico terzo! Alessia quinta, Gregorio sesto con un ocs, Francesco nono. Grande squadra Osa! Ora non ci resta che attendere i risultati dei Laser, ma Mamma Orza nel profondo del suo cuore è più che felice per il risultato del suo Valerio, una vittoria nazionale che sempre rimarrà dentro di lui. Sei stato grande cucciolo!

Il Vallecetta

Lei aveva la montagna nei piedi, le si era incastrata nelle dita molti anni fa quando era poco più che bambina. Per anni, d’inverno, quando la coltre di neve copriva prati e rocce, ogni singolo punto di quell’universo bianco aveva lasciato il suo gusto dentro ai movimenti di lei, così oggi quando le capitava di parlare di quei luoghi in realtà lei poteva solo raccontare di quell’ incredibile intesa che muri e dossi avevano creato con il suo corpo. Lei era in grado di sciare ovunque, ma in nessun luogo provava quel senso di appartenenza che sentiva scendendo da queste piste. Aveva provato a passeggiare nei medesimi luoghi in estate, ma la montagna le era molto più estranea. Solo in inverno si incastrava in quel modo con i suoi piedi. Così, oltre al piacere di sciare qui c’era anche l’amore per il luogo. Un amore dato dalla profonda conoscenza che nasce, a sua volta, dalla lunghissima frequentazione. Il suo era un amore familiare; non l’aveva scelto, ci si era trovata dentro e in esso era cresciuta. Quando fu tempo che suo figlio mettesse gli sci ai piedi, lei lo portò a conoscere la montagna. Gliela presentò come i suoi piedi la conoscevano. Non era venire giù elegantemente da un muro, era godere nel scendere dal muro del tremila, proprio quello li’ che chiedeva sì capacità tecnica per non ammazzarsi, ma soprattutto apertura mentale per giocare, poi, con i due larghi dossi che, a fondo discesa, potevano farti volare o fermare. Non era solo scegliere se correre giù lungo l’asperità della Sant’Ambrogio a capofitto o preferire il panettone sorgente della Praimont; era anche sapere in anticipo, solo guardando neve e montagna, quando il panettone sarebbe stato più una pietraia che una pista. Non era solo godersi la parte finale nel bosco della Bimbi al Sole, ma sapere quali curve stringere per far si che fosse la montagna a spingerti lungo l’altopiano invece di dover racchettare e sudare da te. Non era solo scegliere gli Ermellini per evitare i lastroni rapati della Stella Alpina; era anche scegliere le sue morbide forme per il gusto di rendere perfette le curve senza esasperare il lavoro di gambe. Oppure scegliere l’Isabella proprio per intensificare il loro movimento ed affinare il gesto tecnico usando le sue incalzanti cunette. Il bimbo cresceva imitando la madre curva dopo curva, poi anticipando la madre curva dopo curva. Un giorno lui si staccò da lei dicendole ti aspetto giù. Lei lo guardò scendere e capì che la montagna ora era anche dentro ai piedi del figlio. Lo capì perché nei suoi movimenti c’era molto di più che l’armonia del gesto tecnico; c’era disponibilità ad ascoltare la montagna e ad assecondarla per trovare insieme un più profondo piacere. Da quel giorno, la madre seppe che i due si sarebbero frequenti anche da soli. Oggi lei, ferma per una convalescenza, guardava dal basso il ragazzetto scendere le piste con la montagna nei piedi, la perizia negli arti ed un profondo sorriso negli occhi nato da quel connubio perfetto.

Il padre e il figlio

Era nato bellissimo, un piccolo bambino perfetto. Venuto al mondo talmente veloce che la fatica del parto non aveva lasciato traccia sul suo corpicino indifeso. Biondo e roseo si era subito addormentato tranquillo, avvolto nei lenzuolini del piccolo letto su ruote. I suoi occhi si erano chiusi e le labbra rilassate mentre lui aspettava dormendo che il mondo si aggiustasse quel poco necessario a regalargli uno spazio dentro al suo pulsare. Le braccia materne, a poche ore dalla sua nascita, lo avevano poi alzato al cielo; quattro volte, una per direzione. Era stato alzato, neonato, per essere presentato al creato; era stato alzato, figlio, per ringraziamento del dono di vita arrivato insperato; era stato alzato, creatura, per chiedere una vita felice e prospera; era stato alzato, anima, per essere unito all’universo stellato. Poi era stato abbassato, abbracciato e baciato per indicargli il suo luogo d’amore nel mondo, sua madre. Anche braccia più forti lo avevano tenuto stretto, erano quelle dell’uomo che con la sua nascita era divenuto papà. Le labbra del piccolo avevano imparato a sorridere e, probabilmente, gli era piaciuto molto copiare quella smorfia dai volti adulti perché da allora non avevano mai più smesso. Cresceva felice, ricciolo e solare, protetto dagli occhi amorevoli di quella madre che abbracciava il mondo e lo trasformava per renderlo a misura dei suoi due occhietti svegli che chiedevano vita. Il creato si lasciava toccare quando lo incrociava perché lui era un bimbo dolce e vispo e curioso e bello oltre il normale e, così, ovunque mettesse i suoi piccoli piedi contaminava i luoghi d’amore, come fanno i papaveri quando coi loro calici colorano a rosso il mondo senza che la terra lo voglia. Così lui cresceva molto amato. Ma, un giorno, il padre decise che quel luogo d’amore con al centro i due occhietti vispi non era più abbastanza per la propria felicità e prese la direzione di un’altra vita. Non fu facile per la madre spiegare a quel piccolo volto sorridente che tutto chiedeva alla vita perchè le due braccia più forti al mondo non sarebbero più state lì a proteggerlo e a rendere i giorni a sua misura. Il mondo immutabile fatto d’amore si frantumò agli occhi del bimbo che, a soli cinque anni, dovette imparare a vivere sapendo che altro riempiva le giornate del suo papà; ma quel piccolo bimbo non chiuse il suo cuore alle scelte del padre. Lui continuò ad amarlo, per lui era sempre il suo super papà. Gli anni passarono, ed il padre approfondì i solchi di quella vita parallela che solo ogni tanto si piegava ad accogliere il proprio figlio. Un giorno di fine Gennaio arrivò una sorellina. Quando la piccola stava per nascere il bimbo, ormai ragazzino, disse a sua madre che non era una vera sorella, ma una mezza sorella. La madre ancora una volta abbracciò il mondo prima di restituirlo a suo figlio e gli domandò: “Tu sarai in grado di darle solo mezzo amore?” Il ragazzino rispose che non sapeva come tagliare l’amore a metà, così la madre gli disse: “Allora lei sarà un’intera sorella perché intero sarà l’amore che saprai donarle”. Il primo compleanno della piccola cadde di giovedì, unico giorno della settimana in cui la vita del ragazzino tornava a toccare la vita del padre. Il padre però disse a suo figlio che quel giovedì non lo avrebbero passato assieme perché lui doveva andare dalla sorella e festeggiare il suo compleanno. Il giovedì il ragazzino chiese alla madre se il padre quando era piccolo usasse passare i compleanni assieme a lui. La madre ebbe un sussulto e gli chiese se fosse proprio necessario rispondere a quella domanda. Il ragazzino però pretendeva una risposta e la madre dovette decidere tra verità o falsità. L’amore materno non voleva ferire il cuore del ragazzino già troppe volte amputato; ma quello stesso amore non voleva raccontargli bugie. Lasciò che le parole uscissero da lei senza pensarle e si ascoltò parlare: “No amore non c’è stato un tuo compleanno al quale papà abbia voluto essere presente. Nemmeno il caso lo fece mai capitare.” Questa volta la madre non riuscì ad abbracciare il mondo prima di restituirlo a suo figlio forse perché era troppo stanca e provata. Vide davanti ai suoi occhi il sorriso sul bellissimo viso del figlio spegnersi, la testa abbassarsi e le spalle stringersi nel dolore già molte volte combattuto. Guardandolo lei non riuscì a non pensare alla sua sorellina che si stava scaldando d’amore nelle forti braccia del padre mentre il fratello perdeva il sorriso. Uscì, là dove anni prima aveva alzato il proprio figlio al cielo, ma questa volta le braccia si irrigidirono contro i fianchi e i pugni si chiusero stretti in un perché urlato dritto al creato. Le mute lacrime del suo cuore bagnarono la notte stellata mentre il figlio nel letto combatteva l’ennesimo fortissimo mal di testa che il bacio di mamma ormai non riusciva più a far passare. Lei chiuse gli occhi regalando alla notte l’immagine del sorriso bambino scomparso dal volto del figlio; pregò le stelle di riportarglielo in sogno.

A Simona

Partorendo al mondo una figlia, hai preso un corpo senza dare vita.
Ora, girata di schiena, costruisci barriere tra le esistenze scambiando la tua umanità per divino.
Ancora, affamata, pretendi ciò che la vita ha già dimostrato impossibile pensando te stessa migliore.
Quietati donna, quietati!
Metti i tuoi piedi leggeri nel fango dei tuoi passi e assapora il freddo della terra morta.
Permetti al tuo corpo di ferirsi delle spine nate dal tuo roseto e annusa il profumo della rosa in boccio.
Tocca la mano che ti insozza la vita e lascia che ti mostri la vera natura.
Quietati donna, quietati e forse nascerai madre.